// di Francesco Cataldo Verrina //

«Xenya» è un titolo che stimola talune suggestioni, basta andare alle origini di questa parola che significa «ospitalità», «ospitale» o «straniera» (in greco antico «xénos/ξένος» sta per ospite/straniero). Sappiamo che il culto dell’ospitalità nell’antica Ellade era sacro, quindi ci piace pensare che l’America, l’altra parte della luna come avrebbe detto Lucio Dalla, dove è stato eseguito il mixing ed il mastetering di «Xenya» da parte di Jeremy Loucas, per il nostro quintetto all-stars sia diventata una «terra» ospitale, fertile e propedeutica allo sviluppo delle idee contenute in questo disco. Parliamo di un progetto acefalo senza un vero band-leader, dove cinque giovani musicisti emergenti, Cosimo Boni tromba, Daniele Germani sax alto, Alessandro Lanzoni piano, Francesco Ponticelli contrabbasso e Roberto Giaquinto batteria, hanno operato in maniera sinergica e paritetica anche nella suddivisione dell’onere compositivo.

Ciascuno dei membri dell’organico ha partecipato alla creazione dell’album con una o più composizioni. Tutto ciò fa sì che il collettivo sia completamente immerso, integrato e coinvolto nel progetto. La sinergica accettazione dell’altro all’interno del line-up amplia la collegialità e l’aria amicale che si respira in ogni traccia, dove l’affiatamento diventa una sorta di stimolo e di motore mobile, nonché di reciproco e mutualistico sostegno l’uno per gli altri e viceversa. Ognuno dei sodali diventa ospite ed anfitrione, attraverso uno scambio di doni come accadeva nell’antica Grecia, solo che in questa circostanza le pro-offerte sono di natura melodica e ritmico-armonica. Ciascuno di essi accetta la scrittura e il mood compositivo degli altri, mentre il costrutto concettuale coerente che ne deriva diventa una specie di hub al quale tutti si collegano. Va detto che il ritocco americano ha fatto bene a cinque musicisti. Tra le pieghe dell’album si respira un clima diverso rispetto a certi concept europei. Una volta, a Umbria Jazz, Joe Zawinul mi disse: «Appena sono sbarcato dalla nave ed ho messo piede sul suolo americano, ho sentito che la mia vita di musicista sarebbe cambiata».

L’album si sostanzia attraverso dieci componimenti variati e variegati, ma che contengono lo stessa aura di spontaneità e ben si amalgamano nel mood complessivo del progetto. L’apertura è affidata a «The World Watched And Waited» a firma Germani, in cui il contraltista concepisce un tema intrigante sotteso da un arrangiamento a maglie larghe che consente ai compagni di cordata d’inserirsi e di completare l’impianto sonoro apponendovi il proprio sigillo creativo nel rispetto del lavoro d’insieme. L’iperbole cromatica favorisce la prima linea, specie contralto e tromba, alle prese con variazioni tematiche ricche di cambi di posizione e di prospettiva, ma soprattutto consente alla retroguardia, basso e batteria, di garantire un’agevole pulsazione ritmica, mentre il piano s’incarica di fare da collettore e da collante. «U Do U», scritta da Cosimo Boni è una ballata dai contrafforti lirici piuttosto accentuati, che si apre un varco tra la persistenza e l’insistenza della sezione ritmica, descrivendo una metropoli ideale avvolta nel mistero e nella nebbia, dove una melodia intima e brunita consente alla tromba dell’autore di esprimere un canto profondamente lirico, duplicato con variazioni improvvisative dal sax di Germani, che tenta qualche digressione, sondando i terreni impervi del registro superiore dello strumento.

«The Good Place» è una solida composizione del batterista Roberto Giaquinto, un tema dalla melodia a presa rapida, florido di sfumature cromatiche che si conficca subito nelle meningi del fruitore. Tutto l’impianto sonoro è sostenuto ed agevolato da una calibrata poliritmia. «Unlike Anything Else Ahead» e la seconda traccia siglata da Germani, forte di una musicalità ad ampio spettro che favorisce la collegialità d’intervento e di interscambio fra sax, tromba e pianoforte, aprendo, altresì, la strada ad un divincolato dialogo fra contrabbasso e batteria. Con «Little Green» è il bassista a sfoderare la sua vena compositiva abrasiva ed imprevedibile, fatta di salti quantici intervallari, in cui assume lo scettro del comando il pianoforte di Alessandro Lanzoni, il quale riesce a perimetrare il plot sonoro, aprendo le porte agli assoli di contralto e tromba e alle dinamiche dialogiche tra i due strumenti a fiato, mentre dalla retroguardia basso e batteria dispensano un groove calibrato e adattivo. Il pianista Alessandro Lanzoni è autore di «Feeling Nervous», ma anche deus ex machina e guida del quintetto verso una mercuriale dimensione post-bop, dove spiccano le attitudini all’improvvisazione di Germani e Boni, i quali non badano a spese.

«Walk A Little Quicker», composto in comproprietà da Germani e Ponticelli, possiede un gancio melodico fortemente attrattivo che apre il parenchima sonoro come un forcipe dando alla luce le fluidificanti idee del contralto e dalla tromba, che crescono rapidamente mostrando tutta la loro possanza. «Chess Game» , a firma Ponticelli, sviluppa l’atmosfera di tensione e meditazione di un’autentica partita a scacchi, attraverso un mid-range progressivo e cadenzato nella ritmica e l’ipnosi del movimento pianistico teso a segnare e sottolineare pause, punteggi e colpi di scena, come in un vero gioco da tavolo. La title-track, «Xenya», firmata da Alessandro Lanzoni, si sostanzia come una ballata brunita, ancorata ad un’architrave blues che affiora lentamente dipanandosi in una narrazione sussurrata e impregnata di poetico lirismo. In chiusura «Trabucco», un up tempo uscito dal cilindro magico di German ed innestato in un substrato ritmico che si arricchisce di essenze al lime dei Caraibi, diventando una piattaforma girevole su cui compaiono a turno tutte le maestranze coinvolte nel progetto. È forse il brano più collegiale dell’album, segnato da un clima di piacevole condivisione, una sorta di inno all’interplay. Ascoltando, attentamente, Cosimo Boni, Daniele Germani, Alessandro Lanzoni, Francesco Ponticelli e Roberto Giaquinto con «Xenya», registrato al Cicaletto Recording Studio di Arezzo, ma calato in un clima tipicamente americano dal passaggio finale al Sear Sound di New York, ci si rende conto che l’America, contraddicendo Lucio Dalla, non è poi così lontana e dall’altra parte della luna.

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