«Negli anni Sessanta, essere un musicista jazz bianco non era semplice. C’era una nuova generazione di artisti di colore che mi guardava con sospetto. Dizzy mi disse che ero visto come «uno dei favoriti» dai grandi del passato, come Ellington e Basie».
// di Francesco Cataldo Verrina //
Questa intervista inedita a Gerry Mulligan fu registrata nel 1992 per il Circuito Radio 84. È merito della mia amica Irmingard Hoffmann, che gli amici di Doppio Jazz conoscono come Irma Sanders (Sanders è il cognome del marito Helmut). Irma, che è sempre un’ottima traduttrice, ha conservato, nella sua casa tedesca, tutte le registrazioni che abbiamo effettuato in quegli anni. Nonostante le pessime condizioni dei nastri, usurati e parzialmente smagnetizzati dal tempo, anche in questo caso siamo riusciti a ricavarne una versione scritta alquanto scorrevole, adattando il parlato, talvolta istintivo e frettoloso, ad un testo più regolare e disteso, senza snaturare ed alterare i concetti sia delle domande che delle risposte. Gerry Mulligan parla del suoi rapporto difficile con Miles Davis e Chet Baker, delle discriminazioni subite da parte dei giovani musicisti afro-americani, della produttiva esperienza con i jazzisti italiani e della sua vita milanese, soprattutto dell’assidua frequentazione del Capolinea, mitico locale dei Navigli chiuso nel 1998. Gerry Mulligan è morto nel 1996 in seguito ad alcune complicazioni subentrate dopo un’operazione ad un ginocchio.
FCV: La sua figura è stata determinante nel ridefinire il linguaggio del jazz nel secondo dopoguerra. Qual è il suo ricordo del periodo che portò alla nascita del leggendario «Birth Of The Cool»?
GM: Fu un’epoca di straordinaria effervescenza creativa. L’incontro con Miles Davis fu, per me, un passaporto per le stelle. Ero già attivo da qualche anno, ma fu Gil Evans a convincermi a restare a New York. Il suo loft, se così si poteva chiamare, era un crocevia di menti brillanti: John Lewis, Charles Mingus, Lee Konitz, Monk, Parker… Tutti influenzavano tutti. Charlie Parker era il nostro faro. Lì nacque l’embrione di ciò che sarebbe diventato il cool jazz. Miles ebbe il merito di trasformare quelle idee in realtà: organizzò le prove, scelse i musicisti, mise mano al portafoglio. Ma la scrittura, quella vera, fu opera mia e di John Lewis.
FCV: Lei ha spesso descritto quell’ambiente come spartano, quasi ascetico. Eppure da lì germogliò una delle rivoluzioni più eleganti del jazz moderno.
GM: Esattamente. Il seminterrato di Gil Evans era poco più di una stanza dietro una lavanderia cinese, con tubature a vista, un letto, un lavandino e un pianoforte. Ma era anche un laboratorio di idee. Ricordo John Carisi, autore di «Israel», John Lewis, il nostro classicista, George Russell, visionario assoluto. E poi Blossom Dearie, Max Roach, Bill Barber che suonava Lester Young con la tuba… Era un’epoca in cui si teorizzava il futuro del jazz con una tazza di caffè freddo in mano.
FCV: Nonostante lei è stato una delle menti dietro il celebre «Birth Of The Cool», dopo quell’esperienza, Miles Davis non la coinvolse più nelle sue iniziative. Come spiega questa distanza?
GM: È una domanda che mi sono posto anch’io, più volte. Con Miles abbiamo condiviso un momento irripetibile: la nascita di un nuovo linguaggio. Ma dopo quel progetto, le nostre strade si divisero. Credo che, in parte, fosse una questione di visione. Io ero più interessato alla scrittura, all’equilibrio tra forma e improvvisazione. Miles, invece, era un esploratore instancabile, sempre proiettato verso il futuro. E poi, diciamolo, non era facile stargli accanto. Non amava dividere la leadership.
FCV: Lei ha detto che Miles non fu in grado di assumere il ruolo di leader durante le sessioni del nonetto. Cosa intendeva?
GM: Intendevo che, una volta usciti dal seminterrato di Gil Evans e approdati nei club, serviva una guida salda. Miles fu brillante nel dare il primo impulso, ma poi si perse. Allungava i soli, ignorava le strutture, e questo minava la coesione del gruppo. John Lewis si arrabbiava spesso con lui per questo. Il nonetto era un organismo delicato, non un semplice combo da jam session. Richiedeva disciplina, ascolto reciproco. E Miles, in quel momento, non era pronto a esercitare quel tipo di leadership.
FCV: Eppure, artisticamente, sembravate complementari.
GM: Lo eravamo. Miles aveva un suono lirico, introverso, che si incastrava perfettamente con le mie linee baritonali. In brani come «Jeru» o «Boplicity», c’era una sintonia rara. Ma fuori dallo studio, le cose erano diverse. Miles era diffidente, spesso distante. E io, lo ammetto, ero orgoglioso, forse troppo. Non cercai mai di rientrare nelle sue grazie. E lui non fece nulla per richiamarmi.
FCV: Crede che ci fosse anche una componente razziale in quella distanza?
GM: Forse. Negli anni Sessanta, essere un musicista jazz bianco non era semplice. C’era una nuova generazione di artisti di colore che mi guardava con sospetto. Dizzy mi disse che ero visto come «uno dei favoriti» dai grandi del passato, come Ellington e Basie. Ma i giovani non mi conoscevano, e mi evitavano. Miles, da parte sua, non fece nulla per colmare quel divario. Anzi, sembrava volerlo accentuare.
FCV: Se Miles l’avesse chiamata per «Sketches Of Spain» o «Kind Of Blue», avrebbe accettato?
GM: Senza esitazione. Perché, nonostante tutto, lo consideravo un genio. E perché sapevo che, insieme, avremmo potuto creare ancora qualcosa di unico. Ma quella chiamata non arrivò mai. E così, ognuno seguì la propria traiettoria. Con rispetto, ma senza più incrociarsi.
FCV: Il suo quartetto senza pianoforte, con Chet Baker, è considerato una delle intuizioni più audaci del jazz. Come nacque quella scelta?
GM: Per necessità, come spesso accade. Erroll Garner aveva lasciato il club Haig di Los Angeles, portandosi via il suo Baldwin a coda. Rimasti senza pianoforte, decisi di non sostituirlo. Con Chet avevo già suonato: sapevo che la sua tromba lirica avrebbe dialogato perfettamente con il mio baritono. In brani come «Young Blood» o «Walking Shoes» si percepisce quella leggerezza, quella trasparenza timbrica che cercavamo. Ma tra me e Chet non ci fu mai un vero rapporto personale. Alla lunga, la sua instabilità e i problemi con la droga resero impossibile proseguire.
FCV: A proposito di dipendenze, lei ha attraversato momenti difficili. Come riuscì a venirne fuori?
GM: Grazie a una donna straordinaria: Gail Madden. Era una specie di art director con idee rivoluzionarie, parlava di «condizionamento del sonno» e riuscì a guarirmi dalla depressione. Insieme attraversammo l’America in autostop, fino alla California. Fu lei a mettermi in contatto con Bob Graettinger e con l’ensemble di Stan Kenton. Gail era avanti anni luce. Mi salvò la vita.
FCV: Il suo quartetto con Chet Baker è, comunque, considerato una delle formazioni più innovative e poetiche del jazz moderno. Ciononostante, il vostro rapporto personale è stato tutt’altro che semplice. Come lo ricorda?
GM: Musicalmente, con Chet c’era una magia innegabile. La sua tromba, eterea e malinconica, era il contrappunto perfetto al mio baritono. In brani come «Bernie’s Tune» o «My Funny Valentine», raggiungemmo un’intesa timbrica che sfiorava la telepatia. Ma sul piano umano… era un’altra storia. Chet era inaffidabile, spesso scontroso, e la sua dipendenza dalla droga finì per compromettere tutto. Fu lui a causare la retata dell’antidroga che mi portò in carcere e costrinse allo scioglimento del quartetto.
FCV: Eppure ci furono delle reunion, come quella del 1974 alla Carnegie Hall. Non fu un tentativo di ricucire?
GM: Fu un’illusione. Troppe persone coinvolte, troppe aspettative. Chet era in pessime condizioni, sempre più chiuso, ostile, difficile da gestire. Non riuscimmo a stabilire un dialogo creativo. Era diventato un uomo diverso, e io non avevo più la pazienza di un tempo.
FCV: Eppure, nonostante tutto, la vostra musica insieme continua a incantare.
GM: Perché era vera. Nonostante le tensioni, quando suonavamo, ci dimenticavamo di tutto. Il nostro quartetto senza pianoforte era un’idea radicale, nata quasi per caso, ma divenne un manifesto. Chet era giovane, affascinante, con un suono che sembrava sospeso nell’aria. Io ero più strutturato, più rigoroso. Forse proprio per questo funzionava. Ma la musica non basta a tenere insieme due persone. E noi, fuori dal palco, eravamo troppo diversi.
FCV: Se potesse tornare indietro, rifarebbe tutto?
GM: Assolutamente sì. Perché, nonostante tutto, con Chet abbiamo scritto una pagina irripetibile del jazz. E quella resta. Le nostre divergenze personali non possono cancellare la bellezza di ciò che abbiamo creato.
FCV: Negli anni Sessanta lei espresse un certo risentimento per l’emarginazione dei musicisti bianchi nella scena jazz. Come visse quel periodo?
GM: Fu un decennio amaro, come ho già accennato, i critici, bianchi e neri, ci ignorarono. Non era facile essere un musicista jazz bianco in quegli anni. Ero un conservatore, forse, ma non un razzista.
FCV: Eppure, negli anni successivi, lei tornò a collaborare con grandi nomi ed a comporre per orchestra.
GM: Sì, grazie anche a Franca Rota Borghini Baldovinetti, che è diventata la mia compagna e manager, una donna pragmatica e concreta. Lei prese in mano la mia carriera, rilanciando la Concert Jazz Band. Con Dave Brubeck abbiamo lavorato a progetti sinfonici con la New York Philharmonic e la Cincinnati Symphony. Ho composto brani come «K-4 Pacific», arrangiati per orchestra. La mia musica è sempre stata chiara, lineare, priva di esoterismi. Duke Ellington disse che avevo dato dignità solistica al sax baritono. È il complimento più bello che abbia mai ricevuto.
FCV: Nel 1975 lei registrò un album a Milano con Enrico Intra, uno dei più raffinati pianisti e compositori italiani. Cosa ricorda di quell’esperienza?
GM: Fu un incontro felice, nato quasi per caso ma sviluppatosi con grande naturalezza. Enrico non era soltanto un eccellente pianista: era un compositore colto, un architetto del suono. Non c’era alcuna sudditanza, nessun provincialismo. Parlavamo lingue diverse, ma il jazz era il nostro idioma comune. In sala, tutto fluì con sorprendente armonia.
FCV: Il disco, «GM Meets Enrico Intra», è considerato una delle sue collaborazioni europee più riuscite. Cosa la colpì di più?
GM: La qualità dei musicisti italiani. Giancarlo Barigozzi al sax e flauto, Sergio Farina alla chitarra, Pino Presti al basso elettrico, Tullio De Piscopo alla batteria… erano tutti impeccabili, creativi, ricettivi. Ricordo di aver detto alla stampa: «They’re good imaginative players, and we all fitted well together» («Sono musicisti fantasiosi e ci siamo trovati bene insieme». E lo pensavo davvero. Non fu una semplice sessione, ma un dialogo tra pari.
FCV: Il brano «Nuova Civiltà», una suite di oltre venti minuti firmata da Intra, occupa l’intera prima facciata del disco. Che impressione le fece?
GM: Mi colpì la sua struttura narrativa. Era una composizione ambiziosa, con echi di jazz classico, free, persino rock-progressive. Ma tutto era tenuto insieme da un senso melodico limpido, quasi fiabesco. Enrico aveva suonato quella suite per anni dal vivo, ma non l’aveva mai incisa. L’incontro con me fu, come disse lui stesso, l’occasione giusta per fissarla su disco.
FCV: Lei contribuì con un solo brano, «Rio One», dal sapore latino e rilassato. Come nacque?
GM: Era un pezzo che avevo in mente da tempo, con un tocco di bossa e swing West Coast. Lo scrissi appositamente per quella sessione. Volevo qualcosa che facesse da contrappunto alla densità di «Nuova Civiltà». Il risultato fu un equilibrio perfetto: la mia leggerezza e la profondità di Enrico si completavano a vicenda.
FCV: A distanza di anni, come valuta quell’esperienza?
GM: Fu una delle collaborazioni più gratificanti della mia carriera europea. Non capita spesso che un jazzista americano venga accolto con tanta intelligenza musicale. Enrico e i suoi musicisti non cercavano di imitare nessuno: avevano una voce propria. E questo, per me, è sempre stato il segno distintivo del vero jazz.
FCV: Lei vive da lungo tempo in Italia, in particolare a Milano. Cosa rappresenta per lei questa città?
GM: Milano è stata molto più di una tappa professionale: è una seconda casa. La scoprii davvero nel 1956, quando mi esibii al Teatro della Fiera con un sestetto che includeva Jon Eardley, Bob Brookmeyer e Zoot Sims. Ma fu negli anni Settanta che la città mi accolse pienamente, grazie anche all’incontro con Franca Rota, che divenne mia moglie e la mia bussola. Milano era viva, colta, curiosa. Frequentavo il Conservatorio, il Teatro alla Scala, ma anche i club più informali, come il Capolinea, dove bastava entrare per trovarsi in una jam session fino all’alba.
FCV: Il Capolinea è diventato leggendario. Che atmosfera si respira o si respirava?
GM: È un santuario del jazz, ma senza sacralità. Si suona, si mangia, si discute. Ricordo ancora l’odore della bruschetta e il fumo delle sigarette. Lì ho incontrato Franca per la prima volta, dopo una sessione con Astor Piazzolla. È stato amore a prima vista. Il Capolinea è un luogo dove i musicisti si sentono a casa, senza gerarchie. Un tempo, potevi trovarci Elvin Jones, Betty Carter o un giovane trombettista italiano: tutti sullo stesso palco, con lo stesso entusiasmo.
FCV: Lei ha collaborato con molti musicisti italiani. Che impressione le hanno fatto?
GM: Straordinaria. Musicisti come Mario Rusca, Sergio Farina, Dodo Goya, Tullio De Piscopo… erano preparati, creativi, generosi. Non cercano di imitare gli americani: hanno una voce propria. Questo mi ha colpito profondamente. In Italia ho trovato una scena jazzistica viva, appassionata, spesso più rispettosa della tradizione di quanto non lo sia quella americana di questi anni.
FCV: E la vita quotidiana a Milano?
GM: È semplice, autentica. Abbiamo una casa in viale Piave. Mi piace fare la spesa, passeggiare per Porta Venezia, lavorare al pianoforte nel mio studio. È una vita scandita dalla musica, ma anche da piccoli riti domestici. Negli ultimi anni mi sono avvicinato al buddismo ed ai cori religiosi. Milano mi ha dato equilibrio, ispirazione ed affetto. Non è più una città come le altre: è casa.
FCV: Se dovesse collocare la sua figura nel grande affresco del jazz del dopoguerra, quale sarebbe il suo posto?
GM: Direi che sono stato un ponte. Un ponte tra la complessità del bebop e la chiarezza del cool jazz. Tra l’orchestra e il combo. Tra la scrittura e l’improvvisazione. Non ho mai cercato di essere un rivoluzionario nel senso iconoclasta del termine. Ma ho sempre voluto cambiare le cose dall’interno, con eleganza, con misura. In fondo, il mio baritono ha cercato di dire che anche la profondità può essere leggera.
FCV: Infatti, lei è stato uno dei padri fondatori del cool jazz, ma ha anche contribuito a ridefinire il ruolo del sassofono baritono. Quanto è stato importante per lei questo doppio fronte?
GM: Fondamentale. Il baritono, prima di me, era spesso relegato a ruoli di supporto, quasi orchestrali. Io volevo che cantasse. Che avesse voce. In «Jeru», «Venus de Milo», «Walkin’ Shoes», ho cercato di dimostrare che poteva essere uno strumento di grazia, non solo di potenza. E il cool jazz mi ha dato lo spazio per farlo: un jazz più arioso, più cameristico, dove il silenzio vale quanto una nota.
FCV: Eppure, negli anni Sessanta e Settanta, lei fu spesso percepito come un conservatore, distante dalle nuove avanguardie. È d’accordo?
GM: In parte sì. Non ho mai nascosto la mia diffidenza verso il free jazz. Non perché lo disprezzassi, ma perché non parlava la mia lingua. Io venivo da una scuola in cui l’arrangiamento era una forma di rispetto per l’ascoltatore. La mia musica era costruita, non decostruita. Ma questo non significa che fossi chiuso: ho collaborato con musicisti di ogni estrazione, ho scritto per orchestra, ho flirtato con la fusion. Semplicemente, non ho mai rinnegato la mia estetica.
FCV: Qual è, secondo lei, la sua eredità più duratura?
GM: Forse l’idea che il jazz possa essere sofisticato senza essere elitario. Che si possa scrivere con rigore e suonare con libertà. Che il baritono possa essere protagonista. E che la bellezza, nel jazz, non è un compromesso: è una scelta.
