«Bass It» si materializza quale disco rivelatore di uno degli aspetti meno conosciuti dei Chick Corea, ossia la sua naturale inclinazione alle forme meno pentagrammatiche o, comunque, più trasgressive del jazz avant-garde.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Anche se non documentata dalle cronache jazzistiche e difficilmente tracciabile, esiste un’altra esperienza di Corea legata alla musica d’avanguardia. Crediamo che, al massimo, si sia sussurrato qualcosa di questo disco dal titolo «Bass It», solo fra gli integralisti del jazz hardcore. L’album legò per una toccata e fuga il pianista di Boston al sassofonista inglese John Surman, un battitore libero che all’inizio della carriera amava definirsi: «Un giovane uomo con un baritono, in cerca della prossima jam session»Prima di trovare la quadratura del cerchio in seno all’ECM, Surman aveva collaborato con Miroslav Vitous, Jack DeJohnette, Paul Bley, John Abercrombie, Tomasz Stanko e Karin Krog.

Il progetto fu, però, un’iniziativa del bassista Peter Warren e venne fissato su nastro al Broadway Palace di New York, il 25 maggio del 1970, coinvolgendo, oltre a Surman e Corea, altri musicisti con il baricentro spinto in avanti, a cominciare da quattro bassisti a rotazione: Dave Holland, Jamie Faunt, Glen More e lo stesso Peter Warren; inoltre furono della partita tre batteristi: Barry Altschul (tabla e batteria), Steve Hauss e Stu Martin. Quando l’album venne dato alle stampe in Europa dalla ENJA-PDU, i due nomi in primo piano furono, per ovvi motivi commerciali, quello di Corea e Surman. Il bassista Warren scrisse nelle note di copertina: «Il mio concept iniziale riguardava un Bass Quartet con percussioni. John (Surman) e Stu (Martin) era di passaggio a New York, mentre Chick (Corea), Barry (Altschul) e Dave (Holland), che più tardi avrebbero formato i Circle, si trovavano a provare in un loft del centro, dove avevo contattato Barry per suonare la tabla. Vennero tutti portando i loro strumenti, mentre la musica fece il resto. Fu un giorno felice per tutti noi. Ringrazio i miei amici per aver contribuito a rendere possibile questa esperienza musicale».

L’album sostanzia sulla scorta di cinque esecuzioni libere, mediamente estese. La prima facciata contiene due lunghe tracce ed una più breve, «Interlude», un intermezzo della durata di un paio di minuti, basato un una suspance sonora ostinata e ripetitiva, che funge da spartiacque tra la title-track «Bass It», in cui l’impatto discordante degli strumenti sviluppa un’ambientazione torva e tesa da the day after, e «Subra Har», in cui il compost sonoro ricorda molto le opere più dematerializzate e quasi impalpabili del futuro Anthony Braxton, nelle quali i legami ritmico-armonici risultano sacrificati sull’altare di un assoluto libero arbitrio. La B-Side, che vede in pieno assetto da guerra Surman e Corea, si apre con la lunghissima «Welcome To New York», un’ode senza rime, avulsa dalla metrica e composta in tempo reale secondo i dettami del free jazz più estremo, che sembra descrivere, vibrazione su vibrazione, clangore dopo clangore, i rumori di una tetra metropoli sopravvissuta ad una catastrofe nucleare, mentre «Instrumental No.2», quasi un ossimoro in un album nel quale non esiste il cantato, ma che fa del caos organizzato una legge simile a quella della giungla, dove tutto si regge su codici non scritti e su un’idea primordiale e deterministica.

Nel complesso, il progetto salda l’eclettismo di Corea alla plasticità multiforme di Surman che, Chris Jones della BBC dipinse come«uno dei principali innovatori, quando si trattava di definire una collocazione di rilievo per il sassofono nell’ambito della musica moderna», mentre il Times scrisse di lui: «Surman è un unicum per la sua capacità di fondere alcuni metodi innovativi nelle tessiture del jazz, con una sensibilità tutta inglese». «Bass It» si materializza quale disco rivelatore di uno degli aspetti meno conosciuti dei Chick Corea, ossia la sua naturale inclinazione alle forme meno pentagrammatiche o, comunque, più trasgressive del jazz avant-garde; al contempo costituisce perfino un valido workout prima dell’avventura al fianco di Braxton che, prima d’incontrare il pianista italo-americano, aveva avuto notevoli difficoltà a fare proselitismo, sia a New York che a Parigi, non riuscendo a far digerire i suoi ambiziosi progetti maturati durante la frequentazione di Wadada Leo Smith, il quale, da canto suo, era stato in grado di strutturare una narrazione jazzistica dall’inequivocabile forma mentis, dando l’imprimatur ad una nutrita genia di improvvisatori progressisti sparsi per i cinque continenti.