Secondo una teoria, alquanto comprovata, per riuscire a domare un album del genere, ostico al primo impatto, bisognerebbe sentirlo per almeno cinque volte di seguito, distanziando le sessioni di ascolto di almeno un paio d’ore, o anche di mezza giornata, tanto da mantenerne il ricordo, quindi aggiungere nuovi elementi di gradimento o di maggiore consapevolezza.
// di Francesco Cataldo Verrina //
«Free Jazz» di Ornette Coleman è considerato un disco importante per comprendere l’evoluzione o la deriva del jazz moderno, ma a detta dei molti detrattori sarebbe uno dei dischi jazz più «brutti» che siano stati mai realizzati, o comunque andrebbe interpretato come l’astratta tela di un pittore, nella quale si possono perfino intravedere delle forme reali, da cui poter trarre delle suggestioni e delle indicazioni. Prendendo in prestito il titolo di un precedente disco di Ornette, «The Shape Of Jazz To Come», ossia la forma del jazz che verrà, in «free jazz» la forma è pressoché inesistente, anche se di sostanza ce n’è tanta, come in un vecchio magazzino, dove sia stato stivato tanto materiale, anche di buona qualità, ma ammucchiato a caso. Nessuno oserà dire che questo sia un disco bello, elegante, raffinato, comprensibile, fatto a regola d’arte o secondo l’arte delle regole.
Quando il «jazz libero» raggiunse i livelli parossistici di un incontrollato ed anarchico delirio, divenne la negazione di tutto ciò che il jazz moderno aveva costruito, ossia il sovvertimento delle regole; soprattutto innescò una deriva pericolosa, instillando nella mente di qualsiasi «strimpellatore» con uno strumento in mano la malsana idea di poter suonare ciò che avrebbe voluto, senza che nessuno potesse proferir parola. Con un precedente quale «Free Jazz» dove, come nel diritto, la forma diventa sostanza, torme di musicisti da strapazzo si sentirono autorizzati a farlo, nella piena legalità e con il sostegno o l’indifferenza strategica della critica, che pur assistendo negli anni successivi al massacro di Fort Apache del jazz moderno, aveva oramai contrabbandato taluni lavori nati su questa falsa riga come «avanguardia», «rinascimento», «nuova era», «rivoluzione epocale», dunque non poté fare marcia indietro tanto facilmente. Essendo al corrente di quanto accaduto nell’universo del jazz negli anni successivi, possiamo riconoscere a questo album un’importanza storica, ma calandolo nel ristretto contesto ambientale dove si sviluppò.
Esistono posizioni diametralmente opposte su questo fronte con schiere di appassionati o critici, da sempre, gli uni contro gli altri armati: Guelfi e Ghibellini, Orazi e Curiazi, Apocalittici e Integrati. Non di rado, chi ha una visione più mainstream del jazz viene accusato di conservatorismo, per contro gli zelanti promotori delle avanguardie a prescindere, vengono tacciati di pseudo-intellettualismo modaiolo. È probabile che la verità stia in mezzo e non tutto ciò che lo sperimentalismo libertario, innescato da Ornette Coleman, abbia prodotto nella discografia solo aberrazioni e mostruose deformazioni geometriche del suono. La «New Thing» legherà al jazz istanze sociali connesse alle lotte per i diritti civili e molti segnali di rottura con il passato, quale arma di protesta, saranno più una forma mentis politico-culturale che non propriamente musicale. Il vento di cambiamento sociale, generazionale e giovanile, dopo il ’68, iniziò a spirare a livello planetario, trascinando la musica afro-americana sul terreno dell’antagonismo, talvolta fortemente politicizzato e schierato; verranno accentuate le correnti africaniste e terzomondiste, mentre il jazz acquisirà elementi di fusione, provenienti da mondi, culture altre e generi limitrofi o sceglierà di seguire la via della scomposizione e della destrutturazione totale del concetto di suono. Si pensi ad Anthony Braxton o ai vari musicisti legati al movimento di Chicago.
«Free Jazz» venne pubblicato nel settembre del 1961, ed anticipò di molto quelli che poi saranno i cambiamenti epocali di tutta la musica a partire dalla seconda metà degli ‘60 fino ai primi anni ‘70. Possiamo, addirittura, concordare con chi sostiene, che senza certi dischi di Ornette Coleman, non si sarebbe neppure sviluppato il rock psichedelico o il progressive rock, o almeno il processo sarebbe stato più lento. Nella musica, a tutti i livelli, esiste sempre qualcuno che innesca una reazione a catena, facendo capire a quelli che verranno dopo che si può innovare e cambiare trasgredendo le regole. Tutte le avanguardie nascono così: è il perenne mutatis mutandis della musica. Come primo esempio esteso di improvvisazione libera, «Free Jazz» mette in discussione tutto ciò che il jazz aveva espresso precedentemente nel corso della sua evoluzione storica, lanciandosi in una convulsa corsa ad ostacoli, che al primo ascolto sembrerebbe non avere mai fine. Durante lo sconclusionato procedere melodico-armonico, i vari attori coinvolti nel progetto sembra che vadano ripetutamente a sbattere, cadendo, per poi alzarsi di scatto e muovere in un’altra direzione, senza conoscerne la strada.
Chi impatta per la prima volta con questo album, se non subisce uno shock anafilattico nei primi tre minuti, si convince di trovarsi di fronte ad un’Armata Brancaleone, non alle Crociate, ma in crociera, alla deriva in un mare burrascoso, senza un timoniere o una rotta ben precisa, mentre onde sonore si levano all’improvviso, schiantando sugli scogli la mente del malcapitato o dell’incauto fruitore. La musica di Ornette Coleman era già stata contrassegnata come una sorta di «espressione libera», «post-bop» o «avanguardia del jazz moderno». Il sassofonista texano aveva iniziato a smontare il costrutto concettuale coerente del jazz moderno con i suoi precedenti lavori, oltremodo ben riusciti e mediamente fruibili da chiunque, ma con questo disco l’efferato attacco al cuore del jazz mainstream viene perpetrato con maggiore efferatezza e l’esecuzione capitale si sposta sul piano inclinato e deliberato dell’anarchia sonora. A parte un ordine fisico e di posizionamento prestabilito dei vari solisti in primo piano rispetto alla sezione ritmica e brevi segnali di transizione impostati da Coleman, l’intero progetto venne creato spontaneamente, hic et nunc, qui ed ora, o meglio proprio sul posto, lì ed allora. L’ensemble fu allargato in un formato a doppio quartetto, quattro strumentisti per ogni canale della stereofonia: Ornette al sax, il trombettista Don Cherry, il bassista Scott LaFaro e il batterista Billy Higgins a sinistra; il trombettista Freddie Hubbard, il clarinettista basso Eric Dolphy, il bassista Charlie Haden e il batterista Ed Blackwell sulla destra. Le sezioni ritmiche suonano entrambe contemporaneamente, scatenando l’inferno e supportando l’intera improvvisazione dei solisti con un impulso costante e dinamico.
Per quanti hanno avuto il piacere di apprezzare questo disco, il concetto di base risultava tanto semplice quanto radicale: due quartetti che suonarono simultaneamente in un’estesa improvvisazione senza soluzione di continuità. La lunga suite ricavata dalla sessione venne suddivisa equamente sui due lati dell’album, partendo da sei sezioni prestabilite per ogni singolo strumento a fiato, nonché un’unica sessione per le combinazioni tra basso e batteria. Gli assoli non vanno inquadrati nel senso tradizionale o di un botta e risposta contrappuntistico secondo una logica ben precisa. Ogni solista, entrando in scena, guida il carro della composizione, autonomamente, nella direzione da lui desiderata, mentre a loro volta gli altri attori recitano liberi senza canovaccio, completando il percorso nel modo che ritengono opportuno. I «solisti» a turno sono davvero i principali dialoganti, mentre gli altri strumenti sono liberi di supportare, spingere o punteggiare le linee del player in primo piano. L’intero set di trentasei minuti fu registrato in una singola ripresa ininterrotta e ciò che si sente sull’album è l’esatta esecuzione del doppio quartetto in studio senza tagli o sovraincisioni.
Secondo una teoria, alquanto comprovata, per riuscire a domare un album del genere, ostico al primo impatto, bisognerebbe sentirlo per almeno cinque volte di seguito, distanziando le sessioni di ascolto di almeno un paio d’ore, o anche di mezza giornata, tanto da mantenerne il ricordo, quindi aggiungere nuovi elementi di gradimento o di maggiore consapevolezza. Infatti, dal momento che non esisteva una road map per questo tipo di registrazione, ogni strumentista ha semplicemente messo sulla bilancia il proprio stile personale, frutto del vissuto precedente; non ha composto nulla, ma ha solo frugato nell’archivio della sua memoria. Ciò significa che nelle singole voci degli strumenti sono rintracciabili agevolmente svariati elementi di convenzione sonora e di facile melodia, il che rende «Free Jazz» molto più accessibile rispetto a quanto fu descritto all’indomani della sua pubblicazione. Tuttavia, l’album appare enormemente controverso e dissonante nella sua spoglia struttura e nella mancanza di temi melodici ripetuti, tanto da non poter essere considerato un capolavoro assoluto di musica jazz, nel senso ortodosso del termine: giudizi personali a parte.
Per estrarne l’essenza, basta enucleare con pazienza le singole parti melodiche eseguite dagli strumenti a fiato, per capire che dopo le fasi iniziali in cui ognuno caccia sulla terra della dissonanza iperbolica, seguendo l’astruso concetto di «armolodia», lentamente ognuno di essi torna a più miti consigli, elaborando melodie di stampo più tradizionale, qualcuna perfino rubacchiata a vecchi standard suonati in precedenza. Usiamo la metafora di Pinocchio, che dopo aver mangiato tre pere sbucciate, divora avidamente anche i torsoli e le bucce. Per intenderci, ognuno dei solisti, dopo aver voluto inizialmente impressionare l’ascoltatore, promettendo una sorta di rivoluzione copernicana, affamato divora qualsiasi cosa gli capiti a tiro, anche se nel tascapane di ciascuno di essi erano contenuti tutti vecchi moduli espressivi del jazz. Nessuno di loro proveniva dal nulla, tutti avevano lungamente suonato jazz tradizionale e sarebbero tornati a farlo, in relazione ai tempi e agli ingaggi futuri. Nonostante assomigli molto – come già sottolineato – alla pittura astratta riportata sulla copertina, «Free Jazz» non è così radicale come sembra; il concetto di improvvisazione collettiva ebbe in realtà radici profonde nella storia del jazz, risalendo fino ai primi complessi Dixieland di New Orleans. Da tempo, il movimento jazz era consapevole di riflettere una costante voglia di libertà, sociale ed artistica; soprattutto gli Afro-americani, già da anni stavano operando, grazie al jazz in particolare, una rivoluzione democratica, al fine di ottenere parità di diritti e trattamento in una società a cui avevano apportato un contributo determinante, attraverso il lavoro, lo sport, sacrificando i loro giovani migliori in guerre che non condividevano, ma era soprattutto la loro musica a tenere alto il nome dell’America nel mondo.
Con «Free Jazz», Ornette portò semplicemente questi ideali artistici ad un livello successivo, esasperando il metodo, ma dimostrando che ogni pacifica rivoluzione nel mondo della musica, almeno in quegli anni, era sempre determinata da uomini con la pelle scura. Con il passare degli anni, il consenso generale nei confronti di «Free Jazz» è cresciuto, tutto ciò ha rilevanza soprattutto nella storicizzazione dei vari fenomeni legati alle innumerevoli fasi evolutive del jazz. Non va messo neppure in discussione il giudizio di coloro che sostengono che questo sia il loro album «preferito» tra quelli di Ornette, nonché il migliore in assoluto. In genere, questo non è un disco che si presta al puro godimento jazzistico, da buttare sul piatto o infilare in un lettore CD per un momento di relax immediato ed a temperatura costante; i cambi di tono, di umore e le tempeste sonore seguono momenti di calma apparente, intervallati da abissali cedimenti e scosse telluriche; piuttosto richiede una fruizione attenta ed approfondita e un ascoltatore consapevole.
