Al massimo della loro concentrazione, nonostante la tensione non cali mai vistosamente, i due pianisti riescono a dispensare profonde emozioni e veloci virtuosismi, tradendo un certo godimento e un’evidente voglia di coinvolgere il fruitore.
// di Francesco Cataldo Verrina //
L’ultima volta che Corea ed Hancock avevano suonato in coppia, risaliva agli anni ’70, quando trentenni prolifici e dotati, si abbeveravano alla fonte di Miles Davis, applicando con zelo i principi costitutivi del bebop e della musica latina, le forme più attuali del rock ed i consolidati precetti dell’armonia classica – con tanto di impressionismo francese nel caso di Hancock – a qualsiasi idioma su cui potessero mettere le loro mani veloci.
I due si esibirono dal vivo in tandem, per la prima volta dal 1978, offrendo un set accolto con entusiasmo da pubblica e critica che spaziava dalle sonorita astratte, a tratti evanescenti, al lirismo jazzistico, snocciolando una manciata delle loro composizioni più note. Sul palco si comportarono come una due amici di vecchia data, separati per qualche tempo e poi ritrovatisi: scherzavano sull’abbigliamento l’uno dell’altro, fingevano di non avere idea di che cosa suonare, discutevano con il pubblico come se fossero sorpresi da tanta accoglienza, ma quando si chinavano ed appoggiavano le dita sui due pianoforti a coda la bonomia e l’istrionismo da simpatici intrattenitori svaniva ed un’aura di magia avvolgeva l’ambiente circostante, misurandosi in uno scambio intimo, a volte piuttosto privato di giochi improvvisativi, ma sistematicamente riportati sulla terra dagli arrivi incrociati e bilanciati dei loro brani più famosi. La musica suonata a quattro mani scorreva liberamente, mentre i due pianisti, al fine di aumentare l’intrigo, si affidarono più agli interessi comuni che non a strutture troppo preimpostate e già scritte su pentagramma. Così mentre Hancock accelerava sulla scorta di un congeniale swing sferrando accordi di forte impatto, Corea rispondeva a denti stretti creando un groove orecchiabile, mentre i suoi piedi battevano il tempo.
Dalle loro esibizioni furono tratti due album. Il primo «CoreaHancock» venne fissato su nastro, nel febbraio 1978, al Masonic Auditorium di San Francisco, al Dorothy Chandler Pavilion di Los Angeles e all’Hill Auditorium dell’Università del Michigan di Ann Arbor. Corea ebbe il primo nome in cartellone, mentre Hancock venne accreditato come capofila per «An Evening with Herbie Hancock & Chick Corea: In Concert», la seconda registrazione tratta dello stesso tour e pubblicata dall’etichetta personale di Hancock. Due dischi di alta scuola jazzistica su un terreno ortodossamente acustico. Memorabili performance basate su composizioni suonate quasi a schema libero o comunque rimodulate rispetto alle partiture originali, specie se si considera che entrambi venivano da esperienze saldamente legate all’elettronica e alla fusion-music. I due pianisti furono fin troppo abili e sensibili evitando di ingarbugliare le cose, mentre la loro capacità di indovinare le mosse del compagno, e completarsi a vicenda non venne mai meno. Riascoltando a distanza di tempo «CoreaHancock», ci si accorge di quanto non sia tanto una passeggiata sul viale dei ricordi, ma un punto fermo per tutti gli appassionati di pianoforte solista di tipo jazz, new age, pop o di qualsiasi altro stile musicale contemporaneo. La prime ricognizioni sono volutamente lunghe, divaganti e tortuose, ma a seguire si esplicitano attraverso un modulo jazzistico più diretto con una tranquilla introduzione di accordi da parte di Hancock e un morbido lirismo in stile Bill Evans da parte di Corea.
È sempre una riscoperta ritrovare la versione reinventata di «Homecoming» scritta da Corea che risucchia il fruitore attraverso un botta e risposta fra i due pianoforti per oltre diciannove minuti; per non parlare dell’avvincente trattamento operato dai due sodali ad «Ostinato (from Mikrokosmos For Two Pianos, Four Hands)» di Béla Bartók. I due appaiono irresistibili, passando dal minimalismo ad un groove bebop uptempo o ad uno stile pianistico più increspato, ricorrendo entrambi a spessi sottofondi armonici. Le emozioni si susseguono ascoltando «The Hook» scritto a quattro mani», così come per «Bouquet» di Corea», quasi venti minuti in lungo ed in largo per le sconfinate praterie del jazz fra citazioni eurodotte ed impennate accordali. Superbi gli adattamenti live di «Maiden Voyage» di Hancock e «La Fiesta» di Corea, improvvisate durante le innumerevoli performance sempre in maniera diversa. Al massimo della loro concentrazione, nonostante la tensione non cali mai vistosamente, i due pianisti riescono a dispensare profonde emozioni e veloci virtuosismi, tradendo un certo godimento e un’evidente voglia di coinvolgere il fruitore.
Nondimeno, «An Evening with Herbie Hancock & Chick Corea: In Concert» resta ancora un album avvincente, nonostante la sua cromatura si sia un po’ attenuata. Negli anni il pianismo jazz ha avuto altri risvolti, pur non intaccando mai la superiorità musicale di queste registrazioni. Nel 1978, durante il periodo di massima virulenza della fusion, era certamente una novità, o un fatto insolito, che due musicisti noti per la loro «sensibilità elettrica», fossero tornati a suonare in acustico. È probabile che la maggior parte dei giovani ascoltatori dell’epoca non si rendesse conto che entrambi i pianisti avessero avuto una vita precedente legata al bop e al jazz tradizionale. Quelle esperienze e quei trascorsi furono ben rappresentati. L’album è connotato da due standard, due originali di Hancock, uno di Corea ed un pezzo composto insieme, i quali popolano i solchi di «An Evening with Herbie Hancock & Chick Corea: In Concert», offrendo un anamnesi del loro stato di salute artistica ed uno spaccato dell’essere musicisti capaci di guardare nello specchietto retrovisore ma ben ancorati all’hic et nunc del presente, in un’epoca di transizione e di frenetici mutamenti.
In fondo, Corea ed Hancock, da tempo in orbita nelle alte sfere della discografia mondiale, in quelle memorabili esibizioni avrebbero affinato le armi per il futuro, ancora tra sperimentazioni e circumnavigazioni intorno al verbo jazzistico nel senso più ampio del termine per almeno altri cinquant’anni di carriera. Oggi, ex-post, lo si può affermare senza tema di smentita. L’opener dell’album è affidato a «Someday My Prince Will Come», una sciocca canzoncina proveniente dei cartoni animati e salvata dall’oscurità da Miles Davis. I due pianisti la eseguono con una qualità sognante ed eterea. Segue «Liza», suonata quasi come uno standard con un cenno ad uno stile esecutivo più antico prima di passare ad un modello di comunicazione sonora più contemporaneo: entrambi composero «Button Up», appositamente per la tournée da cui è tratta la registrazione. Le tracce sono lunghe e dilatate. La più breve è «Liza» che dura, si fa per dire, solo nove minuti, mentre la più lunga è «La Fiesta», oltre ventidue minuti. «Button Up» e «February Moments», pur essendo due componimenti nuovi di pacca, non riuscirono a surclassare i due originali: «Maiden Voyage» di Hancock e «La Fiesta» di Corea, che costituiscono i punti più alti dell’album.
(Chick Corea & Herbie Hancock – «CoreaHancock», 1978)
(«An Evening with Herbie Hancock & Chick Corea: In Concert», 1979).