Tutti i lavori di Hersch sono naturalmente accattivanti e si ha l’idea che qualcosa stia sempre per accadere. Anche nei momenti più silenziosi, con il suo modo di suonare, il pianista innesca sempre un quadro emotivo non comune. Lavorando su una manciata di classici moderni Hersch e soci operano una sorta di ricalibrazione agendo sia sulla progressione accordale che sul costrutto melodico.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Fred Hersch, 17 volte candidato ai Grammy con collaborazioni altolocate che vanno da Art Framer a Gary Burton, da Bill Frisell a Joe Lovano, passando perfino per Enrico Rava, è sempre stato un pianista geneticamente superdotato, introspettivo e brillante al contempo, capace di enfatizzare le melodie all’interno di armonizzazioni sofisticate, mutevoli, complesse o semplici che fossero, spostandosi sistematicamente all’interno di territori inesplorati, sia nell’urgenza del momento dettata dalla composizione, sia nel trattamento di classici o materiali di repertorio. Qualunque fosse la fonte, la voce strumentale del pianista si è sempre mostrata brillante, opulenta e distinta. Al netto di un certo trionfalismo, Hersch è stato descritto da Vanity Fair come «il pianista più innovativo del jazz dell’ultimi decenni», mentre dal The New Yorker come «una leggenda vivente». Dal 1984, anno di apparizione sulla scena jazzistica internazionale, in qualunque circostanza, talune qualità del pianista di Cincinnati sono state pienamente esposte ed evidenziate, confermandone la statura di esecutore di prim’ordine dotato di un’ampia visione dell’idioma jazzistico, dilatata ed espansa.

L’album «E.T.C.», ripubblicato dalla nuova Red Records di Marco Pennisi, possiede un contrassegno insolito: non presenta alcuna composizione di Hersch, ma la scelta ispirata degli standard e la peculiarità degli arrangiamenti rendono questa sessione ancora vitale ed interessante. Dal 1988 al 1991, quando pubblicò un secondo album per la Red, con il sassofonista Jerry Bergonzi in qualità di ospite, Fred Hersch guidò un trio di notevole spessore esecutivo insieme al bassista Steve La Spina e al batterista Jeff Hirschfield. Registrato in presa diretta, il 19 maggio del 1988, al Classic Sound Studio di New York, «E.T.C.» fu dato alle stampe per la prima volta nel 1990 con la produzione di Alberto Alberti e Sergio Veschi. Oggi, la nuova edizione in vinile 180 gr. si arricchisce di ulteriori valenze estetiche e formali, mentre il contenuto sonoro viene esaltato da un impeccabile lavoro di remastering di tipo audiofilo. Sulla scorta di uno swing propulsivo e di un modus agendi lieve e disinvolto, sia che gli stati d’animo siano opachi o le narrazioni impressionistiche, il trio esplora una serie di classici moderni come «Black Nile» di Wayne Shorter, suonata con il fuoco dell’anima in una cascata di emozioni a getto continuo; il blues uptempo di Sam Jones, «Unit Seven», riceve il medesimo arrangiamento bruciante ed assertivo, così come «All Blues» di Miles Davis, restituita al mondo degli uomini con un’introduzione vorticosa al pianoforte calata in un arrangiamento a spirale, discontinuo e lievemente aritmico in alcuni frangenti, dove le corde diventano pulsanti e smorzate, quasi dissonanti.

Fred Hersch ha confermato negli anni a venire la sua sottile arguzia formale, la tecnica arrotondata ed i riferimenti al lignaggio jazz specie nelle registrazioni in piano trio, senza guardare eccessivamente nello specchietto retrovisore. Esplorando Monk o Ellington o altri evergreen, piuttosto che le sue composizioni originali, il pianista ha sempre seguito un percorso tema-e-variazioni. Il disco in oggetto non sfugge a tale regola d’ingaggio, tanto che la magistrale ballata di Cole Porter, «Ev’ry Time We Say Goodbye», spazzolata e suadente, diventa una carezza in un pugno di creatività, dove le calde cadenze di Porter si dispiegano sotto ogni singola nota, in cui un bordo più morbido e le linee sparse s’infittiscono per poi sfumare sugli angoli. «Easy To Love», introducendo un ritmo ed un’armonia palpabili in una forma semplificata, riceve lo stesso trattamento di bellezza, ma senza eccedere mai nel ricalco o nel maquillage eccessivo rispetto all’originale, mentre le note aleggiano, ribollono e svaniscono ed il trio unisce bassi rimbombanti, note alte e penetranti con movimenti leggiadri e linee danzanti. Per contro, «Simone» di Frank Foster, poco trattato, diventa una chicca lontana dalla banalità e dal prevedibile, tanto che la melodia emerge come una delicata riflessione sviluppandosi su arpeggi massaggianti. Lavorando su questa manciata di classici moderni Hersch e soci operano una sorta di ricalibrazione agendo sia sulla progressione armonica che sul costrutto tematico.

Tutti i lavori di Hersch sono naturalmente accattivanti e si ha l’idea che qualcosa stia sempre per accadere. Anche nei momenti più silenziosi, con il suo modo di suonare, egli innesca ripetutamente un penetrante quadro emotivo, mentre la Spina e Jeff Hirschfield, sia pure per breve tempo, sono stati due compagni di viaggio straordinari. Nonostante la notevole messe di pubblicazioni (Hersch ha più di sessanta album al suo attivo come leader o co-leader) ed un’inevitabile evoluzione verso una contemporaneità più inquieta e contaminata, «E.T.C.» rimane uno degli album più riusciti e meritevoli di attenzione della lunga discografia del pianista di Cincinnati.