Così New Orleans divenne il terreno fertile per la nascita di una forma d’arte unicamente americana. Per la prima volta nella storia, saranno gli Americani e gli Afro-Americani a colonizzare l’Europa.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Il jazz in quanto tale ha un’origine inequivocabile, ossia esso esiste dal momento in cui può essere identificato attraverso una formula musicale multietnica strutturata in maniera riconoscibile, dunque definibile con il termine jazz. Ogni revisionismo o tentativo depistaggio in tal senso deve essere confinato al nec otium di qualche eminente studioso, o turista fai da, per quanto egli possa offrire suggestive tesi di natura socio-antropologica legata alla collocazione delle varie etnie africane forzosamente portate in catene e trapiantate nelle Ameriendie, in cui svilupparono o trasdussero differenti espressioni ritmiche, poliritmiche o canti spirituali e votivi, a seconda della posizione geografica di provenienza o di ricollocazione: Sud, Centro o Nord America.

Volendo studiare le origini dell’umanità, bisogna partire da quando gli individui delle nostra specie assunsero la forma fisica che oggi conosciamo, unitamente alle peculiarità emotivo-psico-intelletuali che li distinsero progressivamente dagli altri animali. Le affascinanti ipotesi di un’umanità scaturita dall’esplosione di una supernova, dalla mutazione genetica dei dinosauri o degli uccelli lasciano il tempo che trovano rispetto alla certificata comparsa del cosiddetto homo-sapiens. Per paradosso, l’homo-jazz-sapiens ha cominciato ha manifestarsi concretamente in USA, intorno agli anni Venti del secolo scorso, soprattutto le sembianze erano in massima parte quelle di individui dalle caratteristiche afro-somatiche, meticci dalla pelle scura o europei del Sud considerati di colore. Altre teorie, che vorrebbero un preistoria del jazz già sviluppata, nel XIX secolo nei Caraibi e nel Centro America e poi trasportata nel Nord del continente dalle navi insieme al rhum delle Antille, rappresentano solo il trastullo intellettuale di qualche studioso, non dissimile alla teoria che l’uomo discenderebbe dai pesci e non dalle scimmie, o viceversa, piuttosto che andare a scomodare teorie evolutive di tipo darwiniano. L’unico darwinismo presente nel jazz è la sua evoluzione verso modalità ritmico-armoniche sempre più complesse, contaminate e, talvolta, lontane anni luce dalle strutture primigenie in formato canzone. Certamente, la storia del jazz è piuttosto ingarbugliata. Le origini si perdono intorno ai primi decenni dell’800. Soprattutto il jazz continua ad essere materia viva ed una storia del jazz non è mai stata realmente scritta, poichè ogni tentativo, per quanto encomiabile, è frutto di una sovrapposizione di storie che si sommano ad altre storie o eventi, intersecandosi con una serie di avvenimenti minori o parziali: i cosiddetti événementielle, sovente legati ai vari personaggi o al genius loci di turno, possono essere innestati in qualunque punto del racconto alterandone la cronologia o spostandone l’asse geometrico a seconda del quadro di riferimento dell’autore.

Ad esempio, se prendiamo una storia del jazz, o sedicente tale, redatta nell’imminente dopoguerra ci troviamo generalmente alle prese con uno studioso che ha come riferimento, più o meno esplicito, il cornettista Buddy Bolden, quale primo musicista jazz a tutti gli effetti di legge. Considerato un incontenibile animatore delle notti di Storyville, di lui non esistono registrazioni ed il suo reale modo di suonare è pressoché sconosciuto, al massimo immaginato. Forte bevitore con problemi di salute mentale, la carriera di Bolden s’interruppe bruscamente nel 1907, all’età di 30 anni, dopo il ricovero forzato al manicomio statale della Louisiana. Si racconta, approssimativamente, che la tecnica esecutiva del cornettista fosse caratterizzata da quel tipo di improvvisazione successivamente associata al jazz. Usando l’immaginazione, potremmo affermare che, con Bolden, il jazz fosse ancora ad uno stadio larvale e piuttosto primitivo per come, oggi, viene concepito in forma e sostanza. Storie di tal fatta narrano di musicisti afro-americani della prima ora quali Mutt Carey, Bunk Johnson e Joe Oliver, piuttosto che di creoli come Jelly Roll Morton, Freddie Keppard e Sidney Bechet, i quali avrebbero plasmato il genere o fornito delle linee di demarcazione ben precise. Jelly Roll Morton, sapendo di mentire, era solito attribuirsi l’invenzione del jazz. Talentuoso compositore di brani jazz come “Black Bottom Stomp” e “Grandpa’s Spells”, Morton mentiva anche sulla sua data di nascita per convincere i contemporanei che era più vecchio e più esperto di quanto non fosse in realtà, ma solo al fine di accreditare la tesi di essere stato lui l’inventore del jazz. Trattasi, comunque, di una leggerezza e di un peccato veniale che non scalfisce minimamente sul suo valore artistico, comunque da antesignano del genere. Tra i musicisti bianchi ebbero discreta visibilità Papa Jack Laine, Sharkey Bonano e Nick LaRocca. Di alcuni di essi esistono significative registrazioni che ne testimoniano l’importanza. Normalmente, questi musicisti mescolavano vari stilemi musicali, ai ritmi africani e caraibici, usavano strumenti di derivazione e d’invenzione europea incorporando anche inni religiosi, canti rurali ed atmosfere di origine cubana. Non a caso, il jazz viene considerato una summa delle tradizioni musicali dell’Africa occidentale per quanto riguarda la componente ritmica e dell’Europa in merito al sistema accordale. In generale, il jazz è visto come una compenetrazione di stili e linguaggi precedenti, di cui ha assorbito il mood ed il feeling aggiungendovi un particolare tipo di improvvisazione, quale elemento caratterizzante, nonché la sincope, i poliritmi e i ritmi irregolari quali potenziali segni distintivi, così come assoli dilatati e il call and response.

Partendo da un periodo antecedente la guerra tra Nord e Sud, attraverso un lungo processo di incubazione, soprattutto di evoluzione che ha favorito nel tempo l’introiezione di nuovi concetti, il jazz ha iniziato ad assumere caratteristiche somatiche ben tratteggiate, mentre i protagonisti più rappresentativi di questa nuova scuola di pensiero affinavano il loro modulo espressivo dando vita, sovente, a degli autentici sottogeneri, i quali ne diventeranno il contrassegno saliente negli anni a venire, influenzando e coinvolgendo la cultura pop-rock e le musiche brasiliane e antilliane. Sebbene suddetti sottogeneri abbiano tutti una solida base jazzistica, evidenziano talune differenze che li distinguono l’uno dall’altro: taluni presentano influenze culturali esterne di tipo terzomondista, altri abbracciano l’improvvisazione sine die e l’alterazione del sistema armonico. Gli scrittori post-bellici considerano gli anni ’20 come l’inizio dell’era del jazz, momento in cui il genere divenne ampiamente popolare sia negli Stati Uniti che in Europa, attraverso un formato sonoro ben preciso: ballabile, cantabile e ascoltabile alla radio. I “ruggenti anni Venti”, tra proibizionismo, locali e mescite clandestine, portarono il jazz all’attenzione del grande pubblico, sino all’arrivo di personaggi di successo planetario come Louis Armstrong, Duke Ellington o Count Basie, divenuti universalmente amati da tutti gli strati della popolazione, al netto della pigmentazione dell’epidermide e della collocazione nella scala sociale. Per questa tipologia di scrittori, l’epopea del jazz avrebbe raggiunto il culmine durante lo storico concerto di Benny Goodman del 1938 alla Carnegie Hall, dove il clarinettista riunì strumentisti di varie etnie all’interno di quello che veniva considerato un tempio sacro per la musica d’élite, in cui il jazz riuscì ad infrangere il muro della diffidenza. Negli anni successivi, i media, in genere, nel non videro di buon grado il fatto che la leggendaria epoca delle big band dovesse cedere il passo ai nuovi fermenti del bebop e ai piccoli combo formati da quattro o cinque musicisti al massimo.

Se per contro si prende una storia del jazz scritta negli anni Settanta, l’ago della bilancia pende molto di più dalla parte della stagione aurea dell’hard bop, del jazz modale e del free, dando massima rilevanza a personaggi come Miles Davis, Ornette Coleman e John Coltrane, oltre che Charlie Parker, Thelonious Monk e Charles Mingus, solo per fare dei nomi. Tuttavia, le fondamenta del jazz si basano per buona parte su tre tipologie di asset che ne definiscono le caratteristiche chiave: il ragtime, le bande musicali e il blues. Il ragtime si era sviluppato spontaneamente nel Sud degli Stati Uniti, con ritmi e stili afro-americani ed elementi folklorici combinati alla musica popolare europea ed eurodotta tradizionale. Le marcing band furono un supporto fondamentale durante la guerra civile. In primo luogo, miravano a mantenere alto il morale delle truppe, ma accompagnavano anche alcune esercitazioni. Queste sonorità mutuate dalle bandeportarono ad un uso preponderante degli strumenti a fiato. Il blues si era diffuso anche come genere a sé stante durante la guerra secessione influenzato dalle canzoni dei bordelli, dagli spettacoli dei minstrels e dagli spiritual, nonché dal folk e da altri stili in voga all’epoca. Dopo la guerra civile, gli ex-schiavi provenienti dal sud degli Stati Uniti portarono il blues in Louisiana.

Progressivamente, tutti queste espressioni sonore, stilemi, sottogeneri, linguaggi e metalinguaggi si fusero insieme insieme dando vita alle prime forme di jazz, di cui non si conosce il momento esatto in cui esso sia davvero nato. La maggior parte degli studiosi ritiene che il jazz, o qualcosa di simile, una primitiva struttura, abbia cominciato ad emergere alla fine dell’Ottocento o all’inizio del Novecento. I punti di vista sulle origini del jazz sono molteplici e le lotte intestine o le polemiche, fra studiosi e musicologi di differente estrazione, bianchi e neri, americani ed europei, non si contano. Tutto ciò, nei decenni, ha generato una vera confusione, fornendo a chiunque, ed a vario titolo, il pretesto di entrare a gamba tesa nella singolar tenzone, adducendo tesi irrisorie o risibili, sovente suffragate solo da fantasiosi campanilismi come quella accampata da Renzo Arbore, anni addietro, secondo cui il jazz sarebbe un’invenzione dagli italo-americani. Un’ipotesi, peraltro, caldeggiata ed amplificata da parecchi organi di stampa e scribacchini italiani che, con il solito campanilismo becero, issarono la bandiera tricolore in segno di vittoria. Un’ idea quella del conduttore televisivo, oltremodo, non suffragata da prove musicologiche, sociologiche o documentali, ma per la serie: “Uhe’ cumpa’, I love a how you dance a rumba…you mixed up siciliano…All you calabresi do the mambo like a crazy…uhè napulita’, pesce fritto e baccalà”.

Il goliardico desiderio di Arbore di attribuire all’Italia dei meriti storici che, evidentemente non ha mai avuto in relazione alla nascita del jazz, scaturisce da una cultura da imbonitore e burlone televisivo e da musicista di balera. La vexata quaestio nasce dal fatto che il primo disco jazz sia stato ufficialmente inciso da un orchestra di bianchi capeggiata da un americano con un cognome italiano. Fino a quando il primigenio jazz non si spostò a Chicago e New York , dove trovò un ambiente multi-etnico maggiormente integrato, oltre che un terreno fertile dal punto di vista artistico, l’appartenenza alla razza rappresentava un elemento fortemente competitivo, a tratti anche discriminatorio. Il più delle volte, le band si auto-segregavano in base all’etnia. Per chiarire il concetto della primogenitura del jazz, basta analizzare i fatti. Nel 1915, Freddie Keppard era in tournée con la Original Creole Orchestra, quando la Victor Talking Machine Company lo contattò proponendogli di registrare il primo disco jazz in assoluto. Il cornettista, purtroppo perse l’appuntamento con la storia, non avendo capito l’importanza del supporto fono-magnetico ma, preoccupato che altri musicisti, in questo modo, gli potessero rubare le idee, rifiutò l’offerta. Tempo dopo una orchestra di bianchi, la Original Dixieland Jass Band, guidata da Nick LaRocca, accettò di registrare per la Victor Talking Machine Company. Siamo nel 1917, è fu un duro colpo per i musicisti afro-americani, soprattutto a causa delle affermazioni di LaRocca, ammantate di un certo razzismo, ma puramente artistico e competitivo, il quale sosteneva che il jazz fosse stato inventato da musicisti bianchi e che quelli di colore non avrebbero mai suonato altrettanto bene. “Dal momento che la musica jazz è al centro della mitologia americana, ha necessariamente a che fare con le razze”. – Dice Wynton Marsalis – “Più scappiamo da questo problema e più c’imbattiamo in esso”. Un conto è ritenere che i bianchi americani abbiano avuto un ruolo decisivo nella nascita e nella divulgazione del jazz, un altro è pensare che l’Italia possa avere dei meriti storici. Nel 1917, l’Italia paese all’80% analfabeta, mandava i propri figli a morire sul Carso e sull’Adamello, mentre non si cantava, suonava o ballava jazz o ragtime, ma “Il Piave mormorò, non passa lo straniero”.

Il primo a portare il jazz, all’epoca ancora ragtime, in Europa fu James Reese, musicista di colore, pianista, violinista, compositore e direttore d’orchestra originario dell’Alabama. Arruolato con il grado di tenente nel 1917, durante la Prima Guerra Mondiale, James Reese, diresse la banda del 369° Fanteria portando in molte città d’Europa quella mistura di jazz primigenio, marce e ragtime. Rientrato in USA e acclamato come un eroe, iniziò un trionfale tour bruscamente interrotto il 19 maggio del 1919: durante un’esibizione a Boston venne ucciso dal suo batterista per motivi ancora del tutto ignoti. James Reese viene inquadrato come un anello di congiunzione ed un ingranaggio di transizione dalla musica nera tradizionale del XIX secolo al jazz. Trasferitosi a New York , già nel 1904, aveva dato vita al Memphis Students, un trascinante spettacolo fatto di musiche, canti e antiche danze afro-americane. L’evento venne rubricato come il primo concerto pubblico della cosiddetta “musica sincopata”. Con la Society Orchestra, un nutrito ensemble di sassofoni e banjo, incise alcuni dischi di musica pre-jazz non appena la tecnologia dell’epoca lo rese possibile, quindi prima di Nick LaRocca. Nel 1912, anticipando di quasi trent’anni l’idea di Benny Goodman, fu promotore di un mega-concerto alla Carnegie Hall con la monumentale Clef Club Orchestra, il primo ensemble musicale tutto afro-americano con più di cento musicisti.

Talune eresie possono essere utili ad aprire il dibattito sul jazz, che talvolta sembra assopirsi, anche in considerazione dell’età media dei fruitori di questo genere. Le tesi di Marcello Piras, in proposito, appaiono non meno avventurose di quelle del foggiano. Ed in primo luogo, portano a ritenere che siano dovute ad un sorta di campanilismo adattivo o di orgoglio caraibico di ritorno per la serie “Hasta la victoria siempre!” o “Viva Zapata, Viva la revoluciòn!”, che finisce per essere l’ennesimo tentativo di defraudare gli Africano-Americani del loro patrimonio culturale e della loro storia musicale, jazz in primis. In un’intervista a Doppio Jazz, Piras sostiene: “Penso quindi che oggi il jazz come espressione artistica e culturale sia molto meno un prodotto degli Stati Uniti di quanto finora si sia creduto. Gli Stati Uniti hanno posto soprattutto limiti al linguaggio del jazz. Credo che sia fondamentalmente un prodotto d’importazione che gli Stati Uniti hanno ricevuto dai Caraibi con un altro nome, con altri ritmi e hanno poi adattato al contesto americano; e questo adattamento è stato, per molti versi, più una limitazione e una censura che non un arricchimento. Ormai considero il jazz come una sorta di corpo estraneo nella storia musicale degli Stati Uniti. La storia musicale degli Stati Uniti è un’altra: in essa il minstrel show di metà Ottocento si ricollega in modo perfettamente logico al rock della seconda metà del Novecento. Il jazz sta nel mezzo ed è come un meteorite piovuto da Marte. Gli americani non lo hanno creato, lo hanno subìto, spesso senza capirlo”.

Se si sceglie di vivere in Messico, forse si abbraccia una visione caraibica e anti-imperialista o filo-cubana, per cui gli USA diventano il regno del male da demonizzare musicalmente e da minimizzare culturalmente. Credo che sia più una posizione di tipo politico che non musicale; a meno che il jazz non l’abbiano inventato gli indios o nativi presenti, ab origine, sul suolo delle Amerindie, ossia nei nuovi continenti è tutto “un meteorite caduto dal cielo”: o dall’Europa o dall’Africa. Inoltre, non è mai stata negata l’influenza di ritmi, danze antilliane, del clave cubano, del latin-tinge, della contradanza o di variegate essenze caraibiche nella formazione del jazz primigenio o sul ragtime. Il voler non riconoscere a New Orleans di essere stato il fulcro ed il punto di confluenza degli elementi citati, insieme ad altri moduli espressivi e stilemi esecutivi, mi sembra una forzatura ed uno sterile tentativo di spostare l’asse geometrico della storia del jazz dal Nord al Centro America. Il jazz in quanto tale nasce, inequivocabilmente, in USA, dove tutte le influenze sono state già storicamente accertate e riconosciute, magari non nel dettaglio, poiché legate a qualche musicista locale che suonava con una tecnica non dissimile a quella del ragtime. Mettere in discussione l’originalità di Jelly Roll Morton, quale epigono di Ignacio Cervantes, massima espressione delle Danzas Cubanas, ma di certo figura marginale rispetto al pianista nordamericano, diventa un’operazione alquanto improbabile o poco credibile, come quella fantasticata da un tale che prometteva di riuscire a mettere il dito in un occhio a un moscerino. Tutto ciò non fa che sottolinearne invece le caratteristiche comuni, sia formali che culturali, degli innumerevoli stili e linguaggi, finitimi al jazz, che dalla Louisiana si spostarono verso altre zone delle Americhe, Caraibi compresi.

Gli inizi del jazz risalgono in realtà al 19° secolo. New Orleans ospitava il Congo Square, uno spazio dove gli schiavi si riunivano e suonavano. Tale tradizione sarebbe iniziata prima del 1820 accalcando persone provenienti da un’infinità di paesi: un crogiolo di ritmi, voci e suoni che alla fine condussero alla nascita del jazz. A New Orleans, gli schiavi provenienti dai luoghi più disparati dell’Africa potevano riunirsi e suonare, attività ricreativa non sempre permessa in altre città o stati. Il territorio della Louisiana metteva in pratica “Le Code Noir”, una serie di regole scritte che delineavano il trattamento degli schiavi. Mentre la maggior parte delle norme erano dure e severe, consentendo agli schiavi pochi momenti di libertà, alcune clausole concedevano loro qualche diritto – un minimo sindacale – che impedivano ai proprietari delle fattorie, ai negrieri e gli aguzzini di costringerli a lavorare la domenica o durante le festività cattoliche. Così quell’immenso spazio condiviso, chiamato Congo Square, durante il fine settimana consentiva agli schiavi di ritrovarsi e di unirsi in una specie di moderno flash mobbing collettivo. Il jazz resta per antonomasia il linguaggio musicale che meglio incarna un’idea di confluenza tematica e libertà esecutiva, riuscendo ad esprimere, al contempo, un distinto senso della melodia, dell’armonia e del ritmo, così come momenti inattesi di insubordinazione accordale e di alterazione delle forme. Sono, spesso, questi momenti imprevisti a certificare l’unicità del jazz, prevenendone l’omologazione ad altri generi simili o più convenzionali. Ben venga la storia di qualche pianista cubano che avrebbe influenzato Jelly Roll Morton, ma questo non è sufficiente a spostare la sede gestativa e natia del jazz, da New Orleans a l’Avana.