La batteria di Sasha funge da spirito guida, complice il basso di Novikov, mentre il sax di Giuliani cammina sul ciglio del burrone, senza mai debordare su zone particolarmente acquitrinose, tanto che il flusso melodico, per quanto dissonante, produce un piacevole effetto di fluidità mentale, come quando si corre e si riesce a pensare senza freni inibitori.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Diceva Sonny Rollins: «I dischi migliori che ho fatto, erano in trio, me lo fece notare anche Miles». Il trio, cui si riferisce il Colosso, nella sua perfezione angolare è costituito da sassofono, basso e batteria. In questo formato, liberi dai vincoli armonici del pianoforte i musicisti hanno la possibilità di spaziare senza eccessivi legami, specie quando il progetto insegue un’idea, un disegno e un desiderio di libertà espressiva ispirata a degli stilemi jazz di tipo free form, o quantomeno con il baricentro spostato in avanti. Quanto appena affermato si attaglia millimetricamente al primo disco «sul suolo italico» di Sasha Mashin, batterista russo originario di San Pietroburgo e con un bagaglio di esperienze internazionali, il quale da un paio d’anni vive Italia con lo status di rifugiato politico. Ed proprio nel nostro Paese che, considera la sua nuova casa, che il musicista Russo ha stabilito ottime relazioni con molti spiriti affini, tra cui Alex Sipiagin, Rosario Giuliani, Antonio Faraò, Robert Bonisolo, Pietro Tonolo, Paolo Birro, Mauro Negri, Michele Calgaro e Dado Moroni.

Sasha Mashin ha vissuto a lungo a Mosca, dove aveva un ruolo di primo piano nel contesto culturale e jazzistico della metropoli russa. Due attività in particolare occupavano gran parte del suo tempo: il Sasha Mashin Happy Lab, che si teneva una volta alla settimana nel più rinomato jazz club di Mosca, e il Sasha Mashin Happy Run, durante il quale gli amici si riunivano, una volta alla settimana, per fare un decina di chilometri di corsa e due chiacchierare all’aria aperta. L’album «Happy Run», edito dalla Birdbox Records, s’ispira a una di queste attività svolte in patria, ma è anche il risultato di un corsa felice verso un approdo sicuro. «Ho la sensazione di aver finalmente finito la mia gara», spiega il musicista nelle note di copertina del suo disco, «per la prima volta dopo tanto tempo, mi sento sinceramente felice. Mentre l’idea dell’emigrazione una volta mi riempiva di terrore esistenziale, non mi sento nemmeno come se mi fossi allontanato da casa. Gli italiani sono così aperti, amichevoli e solidali che mi sembra di aver completato una maratona e di aver raggiunto il traguardo. Sono a casa». «Happy Run» è il terzo album da leader, ma – come dicevamo – il primo in assoluto prodotto in Italia. Sasha Mashin vanta partecipazioni in oltre una trentina di album, sia come sideman che fonico in sala di registrazione. L’esperienza accumulata, che lo lega alla tradizione afro-americana e ad un concetto di jazz internazionale, ha consentito al batterista russo di allargare lo spettro percettivo della musica e tentare strade talvolta impervie a livello compositivo ed esecutivo, mai banali o troppo convenzionali, cercando orizzonti ispirativi sempre nuovi.

Con «Happy Run», Sasha Mashin trova due perfetti alleati: il sassofonista Rosario Giuliani e il contrabbassista Makar Novikov. Così attraverso cinque soli componimenti, egli racconta una storia fatta di abbandoni, di guerre e di sofferenza, mentre la metafora della «corsa» ha permesso all’artista di allontanarsi dal buio di un difficile passato e che l’ha condotto in Italia verso una nuova vita, ed una nuova casa, Roma, dopo aver abbandonato quello che chiama «Country Of Obscurantism» (Paese dell’Oscurantismo), brano di apertura dell’album da lui firmato, spalmato sul tempo di quasi dieci minuti e introdotto da una lunga progressione percussiva che da perfettamente i senso del disagio, dello smarrimento e della fuga, in cui il sax di Giuliani s’inerpica in verticale in un volo libero, mentre basso e batteria non lasciano aria ferma, colmando i vuoti e facendo da hub di collegamento alle progressioni del sax, che viene più volte innescato da un potente scarica di ritmo. Quello della corsa non è solo un espediente: i tre sodali corrono su e giù mentre Giuliani, perfetto io-narrante tocca vari registri in piena libertà armonica. «Yellow Blues», a firma Makar Novikov, si snoda in maniera serpentina ed itinerante per oltre otto minuti su una struttura in minore, in cui il contrabbassista-autore si concede un lungo assolo. La batteria di Sasha funge da spirito guida, mentre il sax di Giuliani cammina sul ciglio del burrone, senza mai debordare su zone particolarmente acquitrinose, tanto che il flusso melodico, per quanto dissonante, produce un piacevole effetto di fluidità mentale, come quando si corre e si riesce a pensare senza freni inibitori. «Una delle esperienze più belle legate alla corsa», dice Sasha, «è la capacità di pensare e pianificare mentre si corre. In questi momenti, la chimica del cervello cambia in modo significativo, producendo più serotonina e dopamina e puoi pensare in modo più chiaro e preciso».

«Hey It’s Spring», «La sagra della primavera» di Igor Stravinsky, viene trasporta in una dimensione minimale e scarnificata, ma non per questo meno intensa dell’originale, il combinato disposto con la composizione di Victor Lewis «Hey, It’s Me You Are Talkin’ To», l’abilita ad una dimensione più vicina all’hic et nunc del jazz contemporaneo. «Darn That Dream» di Jimmy Van Heusen, pur riadattata ad un humus interlacciato e reso più inquieto dal canto obliquo e abrasivo del sax di Giuliani, mantiene l’aspetto di un ballato e tutti i legami con la classe di appartenenza. L’album si chiude con la magnifica «Suite et Poursuite» composta da Rosario Giuliani, un lunghissima Odissea sonora di oltre sedici minuti, stesa su una tela di Penelope dall’ordito ricco di cromatismi, dove non è difficile imbattersi nel richiamo delle Sirene. Al netto di ogni citazione mitologica, il tema di Giuliani, a cui la retroguardia garantisce il giusto sostegno, contiene elementi di intrigante narrazione, quasi epica, e frammenti di spiritualità coltraniana, che a volte sembrano affacciarsi sulle sponde del Mediterraneo, altri guardare in direzione dell’Europa continentale. «Happy Run», pur nella sua sua corsa incessante, non solo per metafora, trova immediatamente un centro di gravità permanente ed un formula espressiva, fra linguaggi e metalinguaggi sonori, nel telepatico interplay fra i tre sodali e nella loro capacità di relazione inter pares, che li rende talvolta intercambiabili sul front-line, altre volte sinergici.

Sasha Mashini Trio