// di Francesco Cataldo Verrina //
Paolo Conte si è presentato all’Arena Santa Giuliana di Perugia con un paio di occhiali gialli. Qualche commento nel pubblico: «ha saputo che c’è stato Mika e non vuole essere da meno». In realtà gli occhiali hanno avuto una funzione pratica e non estetica: sono stati indossati in scena, poiché le luci sul palco lo colpivano in volto procurandogli fastidio. Il cantautore astigiano è un immortale alla ricerca di un’eleganza informale (sono lontani i tempi di quando si presentava in smoking), un «ragazzo» di 86 anni dall giacca sgualcita con il colletto slacciato, che preferisce la polo alla camicia, amato trasversalmente da giovani e meno giovani, intellettuali, gente comune, e non solo nel nostro paese: in Francia ce lo invidiano e gli hanno perfino conferito la Legione d’Onore. La sua musica possiede quel gradiente di cantabilità immediata che raccoglie input dalla tradizione popolare europea con echi ispanico-argentini, dalle orchestrine da balera, dagli chansonnier francesi, dalla canzone leggera italiana, il tutto abilmente centrifugato e condito da una patina di intellettualismo benefico, non ostentato e fortificato dalla narrazione di quelle storie di provincia, piene di mocambi, leopardi, scimmie e macachi, tanghi e milonghe, allegre rumbe da sala parrocchiale, laghi di montagna e trattorie di periferia che, in un battibaleno, innescano l’identificazione da parte del pubblico ed una forte empatia tra il cantautore e chi ascolta. Sdoganato lo scorso inverno, dopo una ridda di polemiche, anche dalla Scala di Milano, Paolo Conte è un cantante di musica popolare, abilissimo a far credere al mondo di sapersi muovere «sotto le stelle del jazz» o nella culla dell’opera lirica.
Per dirla in soldoni il compositore piemontese, come imprinting, è più jazz di tanti altri artisti che, in questa edizione di Umbria Jazz, sono sfilati sullo stage del Santa Giuliana, possedendo qualche linea di febbre swing; soprattutto da giovane, non volendo fare l’avvocato, aveva deciso di tentare come scrittore o jazzista, ma il jazz della sua epoca (Conte è nato nel 1937) era cosa ben differente da quello contemporaneo, soprattutto in quegli anni in Italia si aveva un’idea del jazz da balera e di musica da ballo, caratteristica solidificata nel corredo generico del musicista astigiano, che mette in scena un retrogusto jazzistico da dopolavoro ferroviario: tutto ciò non sminuisce le sue canzoni, che diventano un ponte tra la leggerezza del pop e l’impegno di un cantautore che mostra di avere un background letterario e storico di notevole spessore. Paolo Conte sembra jazz, ed ha degli enzimi che potrebbero far avvicinare un ascoltatore più esigente al jazz, ma non è jazz: è un’illusione, una fandonia raccontata da taluni cronisti da Cantagiro che si spacciano per esperti. Ciononostante, le sue canzoni possiedono quella facilità di fruizione che ha sedotto il pubblico convenuto all’arena perugina e che gli ha tributato più applausi di Bob Dylan, Mika o Ben Harper, attendendolo sin dalla prime ore del pomeriggio. Non a caso tutta l’area intorno al Santa Giuliana e relativi parcheggi erano saturi parecchie ore prima che il concerto avesse inizio. Paolo Conte a Perugia gode di un credito illimitato ed è stato applaudito moltissimo anche durante la stessa esecuzione dei brani, che molti attempati fans sembravano conoscere a memoria, ma l’uditorio è apparso piuttosto tranquillo, al massimo qualcuno ha tentato due passi di tango.
Nel complesso, una serata da cinema all’aperto in formato famiglia, musicalmente di tutto rispetto, specie se calata in una certa dimensione, merito della band di supporto che ha saputo dilatare i brani e rinfrescarli con arrangiamenti diversi dagli originali. Paolo Conte non delude il pubblico di Umbria Jazz, manifestazione a cui ha già preso parte più volte. Alla fine sembrano tutti contenti con «quelle facce da italiani in gita» e forse la performance dell’ottuagenario astigiano, avvocato rinunciatario, o meglio cantautore per diletto, diventa anche l’epitome di questa Umbria Jazz diventata un fortino arroccato sull’idea che bisogna fare grandi numeri e che il jazz, in quanto tale o da solo, non paga, specie in termini di biglietti venduti. Umbria jazz è una macchina da guerra, come l’hanno definita gli organizzatori (ballando sulle punte e sicuri addirittura di riuscire a camminare sull’acqua), i quali non vedevano l’ora di dire al mondo, due giorni prima della conclusione dell’evento, che sono stati venduti circa quarantamila biglietti. Sorvoliamo, però, sulla vanità degli uomini, che spesso si trasforma in arroganza, perfino quando si spendono danari pubblici e si hanno molte strade aperte da una politica compiacente: non tutto è merito, specie quando si agisce in un regime di monopolio; per contro diciamo che l’unica guerra che la ribattezzata Umbria Poppish sta facendo è al Jazz. E sono proprio le «stelle del jazz» (di cui parla Conte) che stanno a guardare, sperando di non cadere tutte proprio la notte di San Lorenzo, che, oltremodo, è il santo patrono di Perugia, uno dei tre insieme a San Costanzo, più interessato al torcolo e Sant’Ercolano alle scalette non musicali(absit iniuria verbis).
