// di Francesco Cataldo Verrina //
Le cronache del jazz hanno sempre messo in risalto la figura di Jimmy Smith, quale massimo rappresentante dell’organo nel jazz. In realtà intorno all’Hammond B-3, a partire di primi anni ’60, si era creato un valido roster di musicisti, quasi una piccola congrega, tra cui Jack McDuff, Jimmy McGriff, Don Patterson, Baby Face Willette, Freddie Roach e Shirley Scott. In genere questi tastieristi producevano un jazz molto immediato e facile da metabolizzare ed erano particolarmente apprezzati dalla classe operaia o comunque dagli stati sociali più bassi all’interno della stessa comunità nera. La loro musica viene definita sommariamente «soul-jazz», in realtà trattasi di un miscuglio di jazz, funk e blues, con varie articolazioni ed una spiccata vocazione alla danza. Nonostante una forte divulgazione ed affermazione «popolare», il loro contributo alla cultura americana è stato spesso liquidato come «grits ‘n’ gravy» e rimane in qualche modo ignorato dai libri scolastici di storia del jazz.
Va anche precisato che l’Hammond B3 è uno strumento divisivo. Alcuni lo trovano divino e coinvolgente, altri dominante ed eccedente oltremodo: difficile individuare una via di mezzo. Tale conflitto e scontro di opinioni può essere dovuto alla caratteristica stessa dello strumento, che per sua natura tende a sopraffare tutti gli altri. Nelle sue prime applicazioni in ambito jazzistico, il B3 produceva una ridondanza elettrica che in special modo gli ascoltatori bianchi trovavano rumorosa, almeno nel contesto di quella che era stata una musica essenzialmente acustica. Se non applicato con cura, l’Hammond poteva generare una spessa parete sonora impenetrabile ed invalicabile agli altri strumenti, che rischiavano di essere sopraffatti sia durante una registrazione in studio che in un’esibizione dal vivo. Nondimeno, quella sonorità, talvolta dall’aura sacrale ed ecclesiastica, altre acida e martellante e con una naturale inclinazione a stimolare il canto corale ed il ballo, risultava molto più gradita agli Afro-Americani. I musicisti che avevano abbracciato la causa dell’Hammond nel jazz, riuscirono a piegarlo alle proprie esigenze, maritandolo ad una chitarra elettrica, talvolta anche uno strumento a fiato ed eliminando completamente il contrabbasso, il cui rapporto con il B3 risultava alquanto stridulo; per compenso si assegnava alla sola batteria il compito di garantire il drive dalle retrovie, mentre quando l’organo entrava in modalità comping, sostituiva egregiamente il basso con riff veloci, cadenzati e profondi.
Tra i tanti organisti, il più atipico, ma al contempo più innovativo, fu Larry Young. Nato a Newark, nel New Jersey, il promettente Larry iniziò a muovere i primi passi in linea con l’estetica costruttiva di Jimmy Smith, ma presto prese a seguire ben altre coordinate geografiche, elevando l’organo ad un livello superiore di ricerca e sperimentazione e spostandosi sul territorio modale delineato da John Coltrane e McCoy Tyner. Young ebbe la fortuna d’imbattersi in un giovane trombettista, Woody Shaw, dotato di un talento non comune ed aperto ai linguaggi sperimentali del jazz. Young divenne il suo mentore, nonostante l’esiguo scarto anagrafico, mentre tra i due si stabili una speciale sinergia, per compatibilità artistica ed affinità elettiva. «Larry Young era uno dei rari geni della musica», disse Shaw nel 1980. «Suonavamo brani come «Giant Steps». Larry è stata la prima persona a cui ho sentito suonare la scala pentatonica». Tra il 1964 ed il 1965 l’organista ed il trombettista svilupparono una breve ma fruttuosa collaborazione, culminata con l’album chiave della loro collaborazione, «Unity», registrato nel novembre del ’65 per la Blue Note, presso il Van Gelder studio. Young beneficia del sodalizio con Woody Shaw, il quale mette sul piatto della bilancia tre componimenti originali, che fissano alcuni dei punti cardine di «Unity», album considerato all’unanimità tra i Top 100 della storia del jazz moderno. L’organista spiegò la scelta del titolo: «L’album si chiama Unity perché, nonostante coloro che presero parte al set fossero molto individualisti, avevamo tutti lo stesso stato d’animo. Questo stato d’animo riguardava il desiderio di utilizzare l’intera storia del jazz come riferimento, andando avanti e indietro il più possibile».
Il titolo di un pezzo scritto da Shaw riassume questo di desiderio di voler spaziare avanti ed indietro, oltre ogni limite consentito: «Beyond All Limits». L’opener di «Unity» mette in risalto il dilagante multiculturalismo di quel periodo, con un’altra chicca di Woody Shaw, «Zoltan», che parte dal tema del compositore ungherese Zoltan Kodály, ampliandone l’uso pentatonico della scala lidia, mentre Elvin Jones alterna una cadenza percussiva a metà strada tra la tipica banda europea di paese ed il suo feroce estro di geniale batterista afro-americano. «Monk’s Dream» è un omaggio ad un altro padre fondatore, in cui Young copre le parti di basso con la mano sinistra. Le strutture intervallate della sua mano destra sono più vicine alla chitarra che ai voicing del piano. Qualunque cosa di Monk, suonata in maniera diversa, avrebbe potuto apparire una forma di oltraggio o di eresia, eppure ne scaturisce, non solo una versione insolita dello standard monkiano, ma un gioiello di jazz modale emblematico e distintivo. Young sviluppa la sua performance con l’accompagnamento della sola batteria di Elvin Jones, sfruttando appieno le possibilità dell’organo. «If» di Joe Henderson ha una struttura blues, su cui è innestato un piacevole sviluppo armonico latin-funk, nel quale il sassofono fa la parte del leone, dividendo la scena con un estroso Woody Shaw, che non ha difficoltà ad adattare la tromba al concept del sax, mentre Young, sostenuto dalla batteria di Jones, si limita a svolgere il ruolo di «basso» dalla retrovia, fino a ritagliarsi un lungo assolo nel corpo centrale del brano. Coltrane ottiene un ideale namecheck con «The Moontrane» di Shaw, che sarebbe diventato rapidamente uno standard. Il cammino obliquo, in piena iperbole modale di sax, tromba ed organo, dimostra quanto la lezione di Trane avesse già attecchito in quegli anni. «Softly, As In A Morning Sunrise» prelevato dal forziere dell’American Songbook acquisisce nuova luce e colori più intensi in una splendida rivisitazione senza precedenti. In chiusura «Beyond All Limits», sempre a firma Woody Shaw, non fa altro che incrementare il positivo score della band e dare ulteriore spessore alla consistenza dell’album, grazie alla circolarità dell’interazione fra i quattro sodali e la perfetta messa a fuoco del modulo espressivo. Il costrutto sonoro della traccia avrebbe, secondo le parole di Shaw, «una difficile progressione armonica, ma, una volta risolte le difficoltà intrinseche della melodia, non ci sono limiti fin dove si potrebbe arrivare con l’improvvisazione».
«Unity» è un gioco di squadra di prim’ordine. Joe Henderson raramente ha suonato una nota sbagliata: il suo lavoro qui non fa eccezione. Il sassofonista si esprime in maniera calda e focosa, aggressiva ma, come sempre, perfetta. Shaw, pur non essendo ancora pienamente maturo, è sulla buona strada ed il suo contributo risulta determinante non tanto per l’esemplare performance, ma per l’elevato contenuto delle tre composizioni. Elvin Jones, da par suo, tiene il tempo come una locomotiva. Larry Young è solo il perfetto demiurgo di una riuscitissima combinazione di uomini e strumenti, che gli ha consentito di avere un posto in prima fila nella storia del jazz moderno.