// di Francesco Cataldo Verrina //
Un disco come «Vol. 1: Music Of Henderson, Shorter & Coltrane» potrebbe apparire come un azzardo. In primis poiché si decide di scendere sul terreno di caccia non di uno, ma di tre autori dalle caratteristiche compositive ben delineate, che potrebbero non lasciare spazio a tante divagazioni sul tema, se non con il rischio di deragliare verso un imprecisato altrove.
Tutto ciò senza considerare che si tratta di tre fra i più acclamati esecutori che la storia del jazz moderno ricordi. Critici e studiosi a vario titolo hanno spesso ravvisato più di un’affinità elettiva tra Shorter e Coltrane, mentre Henderson possiede talune peculiarità esecutive e compositive che lo distanziano sia dall’uno che dall’altro; soprattutto Henderson, fra i tre tenoristi, è quello meno sfuggente e possiede una quadratura più precisa ed intellegibile: la sua scrittura, ma perfino il suo metodo esecutivo non esce mai dalle righe. La grafia di Shorter e Coltrane evidenzia spesso un tratto nevrotico ed irregolare, frutto di due personalità più inquiete, per contro, nel caso di Henderson, si potrebbe usare, appropriatamente, il termine «calligrafia». In riferimento all’album in oggetto, va subito chiarito che il Pietro Pancella Collective è riuscito abilmente a conciliare la presenza ingombrante di tre figure così marcate, mantenendo un certo distacco ed una misurata equidistanza, evitando così il manierismo scolastico. Tutto ciò ha consentito al contrabbassista abruzzese e compagni di accomunare i tre sassofonisti tributari sotto un comune denominatore, attraverso un lavoro puntiglioso, sinergico e collegiale che fa emergere proprio l’idea del collettivo jazz, dove ognuno ha un ruolo e partecipa attivamente alla realizzazione del progetto.
Due considerazioni personali: la prima è che coloro i quali mi conoscono, sanno che non amo molto le operazioni tributo fatte da jazzisti esordienti, i quali rischiano d’infrangersi sugli scogli di un inevitabile confronto, ma non sono prevenuto: ascolto e vado in profondità. Mi preme, inoltre, raccontare che ho avuto il privilegio di incontrare Joe Henderson durante una lontana edizione di Umbria Jazz, ed il piacere di stare con lui a cena. In quell’occasione scambiammo qualche chiacchiera informale davanti a una bottiglia di Sagrantino di Montefalco, ma mi bastò per capire quanto la sua modestia fosse direttamente proporzionale alla sua magnificenza e perfino alla sua sventura (la carriera di Joe è stata segnata da alti e bassi e riconoscimenti tardivi). Quando gli chiesi se lui si sentisse una specie di raccordo tra Rollins e Coltrane, mi sorrise dicendomi: «Vuoi che ti paghi la cena? Loro sono nell’Olimpo degli Dei, io sono qui con te a parlare del più e del meno». Ad un’altra mia domanda su cosa lo rendesse davvero felice, mi rispose con queste parole: «Quando i giovani musicisti suonano i miei pezzi, mettendoci qualcosa di personale, come facevo io da ragazzo». Questo breve racconto cade a proposito, perché in fondo il jazz è una ruota che gira, o per dirla in maniera blanda, è un gatto che si morde la coda. Sono certo che a Henderson ed a Coltrane il disco di Pancella sarebbe piaciuto e, se fossi in lui o chi per lui, ne manderei una copia a Wayne Shorter.
Nel parenchima sonoro del «Pietro Pancella Collective» ci sono molti elementi di diversità rispetto alle partiture originali dei brani, soprattutto nel modulo esecutivo, par quanto la sintassi sia stata rispettata senza megalomanie di sorta. In primo luogo, è il disco dì esordio di un contrabbassista: un sassofonista non avrebbe resistito all’idea di misurarsi direttamente con i suoi idoli, sfidandoli, per eccesso di zelo, sullo stesso terreno; in seconda istanza il sax suonato nel disco da Manuel Caliumi è un contralto, a fronte del fatto che i tre personaggi omaggiati avessero come strumento d’elezione il sax tenore; infine gli arrangiamenti delle singole tracce sono stati sottoposti a tre differenti trattamenti: Pancella ha lavorato sulle composizioni di Henderson, mentre il pianista Giulio Gentile ed il chitarrista Christian Mascetta hanno svolto il ruolo, rispettivamente, di arrangiatori dei pezzi di Wayne Shorter e John Coltrane. Va da sé, dunque, che «Music Of Henderson, Shorter & Coltrane» presenti una varietà di sfumature, cromatismi e timbri diversi rispetto alla scrittura e all’esecuzione originaria dei vari pezzi. Le composizioni scelte, oltremodo non sono tante, anche se estese ed impegnative: solo sei, due per ciascun autore ed alternate nella track-list. Da segnalare la presenza nell’organico di un ottimo batterista, Michele Santoleri, con il quale Pietro Pancella ha condiviso svariati progetti e con cui, da una decina d’anni, costituisce un’affiatata sezione ritmica: contrabbasso e batteria.
Nel disco sono presenti momenti di libera improvvisazione, ma soprattutto una ricerca di coesione sonora che parte dall’uso di un linguaggio jazzistico moderno, un incontro di più teste pensanti, dove ogni strumento racconta, interagisce ed accompagna le altre sulla scorta di un equilibrato interplay. L’opener «Black Narcissus» (già pubblicata nel 1969) è una delle composizioni modali più riuscite di Joe Henderson e si riferisce all’album omonimo del 1977, periodo in cui il jazz era influenzato dalla fusion. Nella versione del collettivo di Pancella, la presenza della chitarra rende il costrutto meno pressante ed il contralto crea un’atmosfera più sospesa ed onirica, quasi shorteriana. «Witch Hunt» di Wayne Shorter con la presenza della chitarra, a tratti, fa pensare più ai Weather Report che non all’album, «Speak No Evil» del 1965, da cui proviene, ma sono solo suggestioni. L’arrangiamento di Gentile, consente al sax alto di sondare le stesse profondità del brano originale e alla retroguardia ritmica di muoversi con agilità. «Lonnie’s Lament» è una altra scelta azzeccatissima. Il brano è contenuto in uno dei dischi più riusciti di Coltrane, anche se poco conosciuto dalla massa, «Crescent» del 1964, in cui dopo alcuni sperimentalismi si assiste ad un recupero dell costruzione meticolosa della forma e della struttura in maniera modale da parte del sassofonista di Filadelfia. L’arrangiamento contenuto nel disco di Pancella ad opera del chitarrista, che marca molto il territorio, ne sposta l’orologio in avanti nel tempo, conferendo al costrutto un sapore moderatamente fusion.
A seguire un mash-up tra due componimenti di Joe Henderson, «Afro Centric» e «Power To The People», dall’album omonimo del 1969, che conteneva originariamente anche la succitata «Black Narcissus». Il legame tra i due brani porta Pancella e soci a misurarsi su un terreno ipermodale per oltre dieci minuti, dove confluiscono stille di moduli espressivi coltraniani e shorteriani, quasi a voler tentare un amalgama fra i tre elementi in gioco. «Nefertiti» è uno dei più bei regali fatti da Shorter a Miles Davis ed al suo omonimo album del 1968. Davis era in una fase sperimentale e pre-elettrica, quindi giocò molto sul concetto di by-play (costruzione in tempo reale): la sezione fiati ripeteva la melodia numerose volte senza che fossero presenti assoli individuali, per contro la retroguardia ritmica improvvisava in sottofondo, capovolgendo i tradizionali ruoli gerarchici delle due sezioni strumentali. Nel disco del collettivo è il piano che funge da Io-narrante trascinato da una sezione ritmica alquanto inventiva. Il finale è tutto ad appannaggio di Coltrane con «Resolution» e «Pursuance», le due tracce centrali di «A Love Supreme», in questa circostanza quasi trasformate in due ballate meno irruente e più ariose rispetto alle versioni coltraniane. «Vol. 1: Music of Henderson, Shorter & Coltrane» del Pietro Pancella Collective è un disco che riesce ad entrare in punta di piedi in casa di tre mostri sacri del jazz moderno e, in molti frangenti con saggezza estrema, riesce a fare di necessità virtù.