“Il perfetto dosaggio e l’equilibrio fra le parti scritte e quelle improvvisate conferiscono ad “Open Spaces” caratteristiche di unicità ed un elevato livello produttivo sia nel panorama italiano che internazionale”.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Scrivere il nome di Dino Piana, trombonista di vaglia, è come pronunciare il nome di un highlander del jazz mondiale. Sin da quel lontano 1959, quando vinse la “coppa del jazz” come miglior solista in un concorso organizzato dalla radio, sono passati più di sessant’anni. Oggi Dino di primavere ne ha più di novanta, ma non ha mai perso la lucidità creativa, lo smalto compositivo e la fluorescenza esecutiva, privilegio concesso dal fato solo alle divinità della musica. A prescindere da ogni forma di celebrazione, Dino Piana è già consegnato agli annali della storia del jazz, non solo per aver suonato con personaggi del calibro di Frank Rosolino, Chet Baker, Charlie Mingus, Kai Winding, Kenny Clarke e tanti altri, ma soprattutto avendo dipinto insieme a Basso e Valdmbrini alcuni degli affreschi sonori più vividi del jazz italiano.
Rammento una sua splendida esibizione, durante un’edizione di Umbria jazz di fine anni ‘70, insieme ad Oscar Valdambrini ed al figlio Franco Piana, eccelso compositore ed arrangiatore, il quale sarebbe diventato il più fedele alleato nel suo cammino artistico da un certo punto in avanti. A volte è molto difficile etichettare talune forme ibride di rappresentazione musicale o di combine sonora per quanto perfette ed accurate, ma nel caso di “Open Spaces” di Dino & Franco Piana Ensemble potremmo parlare di opera jazz in 9 atti. L’album si sostanzia come una forma contemporanea di “terza via”, dove il jazz si arricchisce di elementi e strumenti classici, mentre il costrutto sinfonico e cameristico viene rivitalizzato dall’apporto di alcuni più moderni moduli espressivi che lo sottraggono al letargo o all’idea di essere una lingua morta come il Latino, quanto meno assopito, ma capace di ritornare vitale, se rinvigorito dall’estrosità trasversale ed improvvisativa del jazz.
Ed è proprio questo l’elemento cardine su cui poggia l’intero progetto: il perfetto dosaggio e l’equilibrio fra le parti scritte e quelle improvvisate. Tanto da conferire ad “Open Spaces” caratteristiche di unicità ed un elevato livello produttivo sia nel panorama italiano che internazionale. Come sostiene Franco Piana in un’intervista: “L’intento è quello di far coesistere le varie sonorità e cercare di variare i colori, con uno sguardo aperto alle possibilità timbriche di strumenti come gli archi, apparentemente lontani dal jazz. Ho anche usato spesso sezione miste come archi con flauto o sax soprano, oppure trombe in sordina con viola e violoncello, Ma ho anche usato gli archi come sezione principale armonizzandoli con accordi a cinque voci tipiche della tradizione jazzistica”. A distanza di quattro anni, Dino e Franco Piana con il loro ensemble tornano nell’alveo dell’Alfa Music, dove oltre ad operare insieme ad accreditati musicisti, rinforzano le fila con alcuni validi emergenti.
Questa l’attuale configurazione della band: Dino Piana trombone valvolare, Franco Piana flicorno, Fabrizio Bosso tromba, Max Ionata sax tenore e soprano, Ferruccio Corsi sax alto, Lorenzo Corsi flauto, Enrico Pieranunzi piano, Giuseppe Bassi Contrabbasso e Roberto Gatto batteria, mentre il line-up di base si arricchisce dalla presenza dei cinque archi della Bim Orchestra: Marcello Sirignano primo violino, Andrea Cortesi secondo violino, Mario Gentili terzo violino, Fabrizio De Melis viola e Giuseppe Tortora violoncello. La scrittura è accurata, la ricerca profonda, nulla sembra essere affidato al caso, così come gli arrangiamenti curati dallo stesso Franco Piana sono da manuale. Un equilibrato gioco di colori e suoni, timbri e suggestioni trovano un preciso incastro nelle due composizioni principali. “Open Spaces” e “Sketch of Colours”, la cui partitura è opera di Franco Piana con la collaborazione del giovane Lorenzo Corsi, sono imperniate su un’introduzione e tre variazioni la prima e su un’introduzione e due movimenti la seconda, soprattutto sono impostate su elementi di fusione, che rendono possibile e piacevole la coabitazione tra il classico ed il moderno.
Non compresi nelle due suite, l’album include tre componimenti assai ispirati, molto più legati allo spirito jazzistico: “Dreaming”, è avvolgente ballata, la cui messa in scena sembrerebbe contraddire l’idea dell’ensemble composito: bastano il trombone di Dino Piana ed il pianoforte di Enrico Pieranunzi a far salire lo score del progetto; a seguire “Sunshine”, un ottimo esempio di post-bob a linee progressive, proposto con la formula del quintetto jazz standard, senza il trombone; al contrario il conclusivo “Blue Blues” se ne pregia nuovamente con l’aggiunta della tromba di Fabrizio Bosso, mentre Franco Piana torna a soffiare nel flicorno; anche qui la band sciorina una lezione di autentico jazz di grossa cilindrata, attualissimo e senza complessi nei confronti della tradizione.
Open Spaces” di Dino & Franco Piana Ensembleè un album duale e bifronte, e questo non gli consente di essere un concept vero e proprio, nonostante il costrutto sia coerente, ordinato e ben amalgamato, tanto da non scontentare né i cultori delle soluzioni ibride e né i puristi del jazz. Probabilmente non è una forma perfetta di “third stream”, ma se ne potrebbe ricavare un calco e brevettarlo come un unicum; sicuramente la sostanza sonora è modellata ad immagine e somiglianza della genialità e della bellezza.