// di Francesco Cataldo Verrina //

Quando la Blue Note, o meglio la subentrante Fantasy, diede alle stampe questo album, Alfred Lion aveva già abdicato a favore della nuova proprietà optando per una pensione di lusso, ma Francis Wolff era rimasto in azienda come figura simbolica, una sorta di collante con il passato con l’incarico di non disperdere quanto fosse rimasto ancora del vecchio roster. Alla Fantasy però iniziarono ad agire per proprio conto e ad intercettare i nuovi virgulti del jazz. «Introdoucing Kenny Cox And The Contemporary Jazz Quintet», album di debutto del pianista Kenny Cox, non vede in cartellone nessuno di quei nomi con cui l’etichetta di Alfred Lion aveva sedotto e dominato il mondo del jazz; apparentemente questo disco non ha nulla di newyorkese, a cominciare dalla copertina, basata su una foto di Leo Knight, che somiglia più a certe cover-art tipiche del West Coast Jazz con il line-up sorridente e vacanziero ripreso dall’alto. La sessione di registrazione si tenne allo United Sound Systems di Detroit. Solo in un secondo momento, ed in fase di ristampa, il materiale fissato su nastro venne rieditato al Van Gelder Studio. Ciononostante, il nuovo produttore incaricato, Duke Pearson, a cui Cox era stato presentato da un disc-jockey di Detroit, tale Richard Springer, aveva capito taluni meccanismi, così l’album, per quanto distante dall’ambiente della Grande Mela, contiene un mood che lo rende contiguo a talune produzioni dell’ultimo periodo, del basso impero Blue Note sotto l’egida di Lion. In verità, Kenny Cox, nativo del Michigan aveva sempre apprezzato l’hard bop ed il post-bop collaborando con diversi musicisti della vecchia nomenclatura: Rahsaan Roland Kirk, Eddie Harris, Jackie McLean, Roy Haynes, Ben Webster, Wes Montgomery, Kenny Dorham, Philly Joe Jones, Kenny Burrell, Donald Byrd, Roy Brooks, Charles McPherson e Curtis Fuller.

«Introdoucing Kenny Cox And The Contemporary Jazz Quintet» va considerato importante sotto il profilo storico-musicologico, poichè rappresenta una delle prime espressioni del jazz di Detroit, una scena musicale piuttosto vivace, ricca di fermenti e particolarmente condizionata dal soul. La capitale del Michigan era la sede della Motown, in massima parte gestita da afro-americani, etichetta discografica che aveva traghettato le aspre e ruvide formule dell’R&B verso una dimensione più fruibile e gradita al pubblico bianco, usando lo slogan pubblicitario: The Sound Of Young America. Detroit aveva dato i natali anche Donald Byrd, Tommy Flanagan, Paul Chambers, Yusef Lateef, Pepper Adams, Elvin Jones e molti altri. Sin dal primo fugace ascolto si intuisce come e quanto l’album sia influenzato da talune convinzioni maturate all’interno della Strata Corporation, una cooperativa artistica fondata da Cox, Moore e Henderson, con lo scopo di ricreare nella loro città un ambiente simile a quello newyorkese promuovendo e diffondere il jazz di Detroit, attraverso concerti, festival, seminari, registrazioni e trasmissioni radiofoniche. Pur muovendosi sull’asse evolutivo del jazz di fine anni Sessanta, il concept di Cox e compagni mescola abilmente tradizione e innovazione, forma e improvvisazione, armonia classica e modalità, ritmo e poliritmia, risonanza e dissonanza.

Al netto di un formale tentativo di sperimentazione, Kenny Cox al piano, Charles Moore alla tromba, Leon Henderson al sax tenore (fratello minore di Joe Henderson), Ron Brooks al contrabbasso e Danny Spencer alla batteria gravitano sul perno principale di un post-bop con il baricentro spostato in avanti, tra soul jazz ed timidi accenni free form, che non prendono mai vie di fuga senza ritorno; soprattutto dai sei componimento originali ripresi in studio, a firma Cox, Moore, Henderson e Durrah, emerge un notevole varietà di stili e di influenze, attraverso una ricco corredo accordale e un marcato senso dell’orientamento melodico, in cui l’impianto sonoro è costantemente locupletato da un telepatico interplay e da una retroguardia dai tratti fortemente cinetici. Cox alterna lirismo e tensione con un perfetto e bilanciato uso delle due mai, che, distintamente, si sostengono e si compensano: l’una favorisce lo sviluppo solistico, mentre l’altra appare intenta a creare contrasti armonici. Il band leader risulta autorevole, ma non autoritario, concedendo molto spazio ai sodali, in particolare Moore e Henderson sguainano due personalità ben definite espellendo dai loro strumenti un suono suono caldo e penetrante, segnato da fraseggi fluidi e inventivi e da improvvisazioni ardite e non prevedibili. Dalle retrovie Brooks e Spencer garantiscono al front-line, con versatilità e dedizione, groove incisivi caratterizzati da ripetuti cambi di tempo e di umore.

L’opener è affidato a «Mystique», adagiato su una melodia a presa rapida, su un ritmo incalzante e corroborato dall’abilità armonica di Cox, il quale tira fuori dal cilindro accordi densi ma ben lubrificati, dissonanti e propedeutici al dialogo tra Moore e Henderson, intenti a scambiarsi frasi brevi e taglienti. A tratti, il loro dialogo ricorda quello tra Lee Morgan e Joe Henderson in «Mode For Joe», dove tutti gli assoli della prima linea tendono a scandagliare le innumerevoli possibilità della forma e della tonalità. «You», scritta da Durrah, ha le sembianze di una ballata intensa e malinconica, con una zuccherosa struttura melodia e una progressione armonica scarna e diretta, su cui gli strumenti a fiato si fanno promesse per l’eternità: morbido e vellutato il suono di Moore che interpreta il tema con delicatezza e feeling, mentre il comping di Cox rilascia accordi in ordine sparso e note singole. Al cambio di mood, la tromba di Moore esprime tutta l’emotività in suo possesso con fraseggi lunghi e sinuosi. «Trance Dance», è una luminosa composizione di Cox che guarda in avanti con una struttura a fibre naturali funkified misto afro-cuban, una melodia ripetitiva e un groove sincopato, in cui la retroguardia usa percussioni e tamburelli sviluppando un clima festoso e coinvolgente, quasi da boogaloo alla Lee Morgan. Da sottolineare il metodo armonico di Cox alle prese con pattern ostinati e accenti sfasati, nonché il virtuosismo non ostentato di Henderson, il quale esegue il tema a passo svelto e con precisione chirurgica.

«Eclipse», a firma Henderson tenta la carta dello sperimentalismo giocando al tavolo di una melodia complessa e di un groove asimmetrico, in cui la sezione ritmica opta per i tempi dispari e cambi di metrica, nonché su un’armonia mutevole basata su modi e tonalità differenti; tutto ciò incrementa il contrasto tra le parti lente e quelle più sostenute. L’aspro e graffiante soffio di Henderson aggiunge al tema vigore e aggressività, a metà strada tra l’illustre fratello e un Coltrane in fase di assestamento; lo stesso Cox tenta qualche zampillata di note alla McCoy Tyner. Non va dimenticato che negli ultimi tre anni (precedenti il ’68) Trane e dintorni avevano dominato la scena e le cronache del jazz mondiale: chiunque ne era o ne sarebbe rimasto influenzato, almeno ammirato. La B-Side si apre con «Number Four», una lunga corsa a perdifiato di quasi undici minuti. Volendo usare una metafora letteraria, potremmo definirla come una sorta di endecasillabo senza distico finale, talvolta in rima tal altre in tema con quelli che erano stati i dettami e precetti del vademecum della Blue Note. Composto da Charles Moore, l’interminabile telaio sonoro si stende armonicamente, con accordi di settima e di nona, sotto una melodia lineare accompagnata da un ritmo swing, che tende ad un hard bop a tratti dissonante e deviato verso il modale. Il metodo è quello vernacolare, tipico di una sezione ritmica che non disdegna il walking-bass, il piano ride e il botta e risposta tra i sodali, come una torta di compleanno suddivisa in parti uguali. Lo spazio non manca per mettere in scena una quattro stagioni del jazz moderno, dove i cambi di clima e di abbigliamento sonoro sono molteplici, specie tromba e sax sembrerebbero voler percorrere tutta la mille miglia del bop, dal canto suo Cox annuisce e gli riversa addosso raffiche di accordi sine die martellando i tasti dal piano a destra e a manca.

In chiusura, «Diahnn», una singolare composizione del sassofonista, dotata di un architettura modale e di un ritmo lento e cadenzato, che affonda in un’ambientazione meditativa e mistica; molti meriti vanno attribuiti proprio al sax tenore di Leon Henderson, che come un pittore, arricchisce la tela con giochi di luce chiaroscurali e un pantone creativo dai cromatismi intensi. Senza opporre resistenza, il resto del line-up sembra disposto a convertirsi a questa nuova dimensione di profonda e vibrante spiritualità sviluppando un’aura di libertà e di ricerca. Pur tentando di divincolarsi dal passato e di non guardare troppo nello specchietto retrovisore, «Introdoucing Kenny Cox And The Contemporary Jazz Quintet» resta, in massima parte, legato allo stile Blue Note della seconda metà degli anni ’60: tutto ciò è un vantaggio e, di certo, non una deminutio capitis. Se un album di tale fattura, peraltro pregevole, fosse uscito qualche anno prima, averebbe avuto maggiore considerazione da parte di critici e storiografi: basta considerarlo un disco del 1964, perché l’incantesimo non svanisca.

Kenny Cox Quintet