// di Francesco Cataldo Verrina //
Dopo l’esperienza con Miles Davis, a cui «rubò» qualcosa del mestiere, Chick Corea formò un gruppo d’avanguardia, i Circle, insieme Dave Holland, Anthony Braxton e Barry Altschul. La sperimentazione eccessiva e la non facile fruibilità di taluni progetti non consentì al pianista di andare, però, oltre un ristretto pubblico di appassionati, tanto che nel 1972, dopo aver abbracciato le bizzarre teorie di Scientology, Corea decise puntare su un’audience più ampia, dando vita ai Return To Forever indirizzati verso una produzione molto più in linea con i nuovi diktat del mercato mainstream. I Return To Forever, insieme ai Weather Report e alla Mahavishnu Orchestra, divennero una delle formazioni più importanti nell’ambito della fusion-jazz degli anni Settanta, ospitando a rotazione tutta una serie di musicisti come Flora Purim, Airto Moreira, Lenny White, Gerry Brown, Al Di Meola ed altri. L’unico punto fisso nel movimentato ensemble di Corea, una sorta di alter ego, fu il bassista Stanley Clarke.
Con gli RTF Corea era all’apice del suo potere creativo, come molti musicisti legati alla fusion che raggiunsero quel picco, tra il 1970 e il 1977, elevandosi sulla moltitudine dei coevi. Il jazz, nella sua struttura tradizionale, era aggredito e dilaniano da forze centrifughe di ogni tipo, al punto che, specie nella seconda metà degli anni Settanta, per usare un paradosso, si andava a dormire preti e ci si svegliava curati. Per intenderci, quello che oggi poteva essere una certezza, domani poteva diventare un dubbio atroce: da jazz uscivano nuovi flussi di idee innovative e tendenze, per contro entravano agenti contaminanti di ogni tipo. In quegli anni il jazz, sotto il comune denominatore del termine fusion, iniziava a diventare tutto ed il contrario di tutto: jazz-rock, jazz-funk, ethno-jazz, fino a degenerare nei primi anni Ottanta in una sorta di jazz da sala d’attesa, denominato smooth-jazz, si pensi alle tante produzioni della GRT, etichettate sovente come fusion-jazz, ma che talvolta si avvicinavano ad una piacevolissima musica strumentale da discoteca, ambient o simil-newage.
Nel 1977, Chick Corea intuì che fosse giunto il tempo di saltare giù dalla nave, prima che colasse a picco e lo fece registrando un live, il 20 e 21 maggio 1977, al Palladium di New York City, nell’ambito del tour MusicMagic a supporto dell’album omonimo. Il disco ricavato dal concerto divenne l’addio alle armi o, se preferite, il canto del cigno dei Return To Forever. Questa fu l’ultima, ma anche l’unica tournée che vide protagonista la formazione legata all’album «Musicmagic» (1977), con Corea, Stanley Clarke e Joe Farrell, insieme al nuovo membro aggiunto, la moglie di Chick, Gayle Moran ,voce, pianoforte e organo, Gerry Brown alla batteria ed una sezione fiati di sei elementi. Il risultato fu un set energico, caratterizzato dalla marcata leadership delle due forze chiave degli RTF (Chick Corea e Stanley Clarke). Mancano Al Di Meola e Lenny White, dettaglio non trascurabile, quindi, per molti versi, ci troviamo alle prese con un gruppo diverso da quello che aveva generato lo stile tipico, il modus operandi e la parte migliore della produzione del gruppo di Corea. Tuttavia, in quest’ultima «zampata» dei rimaneggiati RTF non mancano creatività e qualità di esecuzione, per quanto in tale circostanza il gruppo di Corea, al netto della complessità armonica, sembrerebbe muoversi a metà strada tra gli Earth, Wind & Fire, i Chicago vecchia maniera e i Weather Report più funk-oriented, Segno evidente che il pianista italo-americano stesse guardando verso un mercato più poppish, ibrido e generalista.
L’album originale, realizzato con alcuni estratti dal concerto al Palladium, contempla appieno i desiderata di Corea, sodali e consorte. Vi consiglio, però, di fermarvi a a questa prima uscita, ossia «Return To Forever Live» del 1978, disco singolo con copertina gialla in cui spicca nel corpo centrale un famoso dipinto di Pablo Picasso, conosciuto come «Three Musicians (Tre Musicisti)». Tutto ciò che verrà immesso in seguito sul mercato, pur nella sua abbondanza, è semplicemente dispersivo e ridondante con molti errori di editing, inutili lungaggini e diluizioni di sorta con introduzioni, parole inutili, time-out e ripetitive sequenze musicali senza alcun interesse o mordente. Oltretutto il primo album uscito (quello che stiamo trattando) possedeva un’eccellente qualità sonora, tanto da poter percepire nitidamente ogni nota ed ogni strumento, pur trattandosi di una una ripresa dal vivo. Ad onor del vero, nel 1978, in fase di post-produzione, la tecnologia consentiva ottime finalizzazioni, così come gli apparati di ripresa usati durante i concerti consentivano di fissare su nastro registrazioni (grezze) già di elevato livello.
La scelta dei brani è ben congegnata ed il tutto risulta alquanto fruibile, sebbene incastrato tra elementi complessi, ma diluiti dal dinamismo esecutivo di abili musicisti che, anche dal vivo, suonano in maniera piuttosto disciplinata e mercuriale: eccellenti le parti di supporto della sezione fiati, soprattutto il disco nel suo complesso restituisce una piacevole atmosfera da live performance, attraverso una varietà di suoni che negli album in studio degli RTF probabilmente erano interdetti e con interiezioni inventive da parte di quasi tutti gli esecutori, i quali sciorinano in modo eloquente alcuni passaggi che sono decisamente più validi dei corrispettivi in sala di registrazione. Il live su disco singolo sarebbe stata una piacevole chiusura dell’avventura Return To Forever, ma l’avidità dei discografici, in genere, supera ogni limite o steccato artistico, mentre il concetto di arte come produzione (seriale) finisce per superare abbondantemente l’idea di arte come espressione pura ed individuale o collettiva.
Una versione notevolmente ampliata dell’album fu pubblicata nel 1978 su quattro LP come «Return to Forever Live: The Complete Concert», contenente l’intero concerto di due ore e quaranta minuti. Operazione che appagò, forse, i completisti, ma che lasciò interdetti critici ed esperti a vario livello. Come già detto, questa ridondante edizione spalmata su quattro album contiene tanta zavorra inutile, compresa una versione di «Spanish Fantasy», la cui introduzione era stata precedentemente pubblicata come «Chick’s Piano». Sono incluse perfino le introduzioni parlate dei brani di Stanley Clarke, tra cui una in cui il bassista viene dileggiato e contestato dal pubblico mentre annuncia la fine del concerto. Come se non bastasse, nel giugno 2011 la Columbia (Sony) ha pubblicato un cofanetto con cinque CDs, «Return to Forever, The Complete Columbia Albums Collection», che include l’intera registrazione del 1977 Live, «The Complete Concert» su tre CDs insieme agli album in studio «Romantic Warrior» del 1976 e «Musicmagic» del 1977.
«Return To Forever Live» – come già spiegato – cattura perfettamente il mood della band, anche meglio del disco in studio. Il costrutto sonoro è implementato dalle voci soul di Gayle Morris e Stanley Clarke, da una sezione fiati colorata e sinergica e da una ricca presenza di tastiere: Moog, Fender Rhodes, Mellotron e Hammond B3. Manca la chitarra, ma gli assoli prolungati di Corea fanno dimenticare che Di Meola non faceva più parte di quella famiglia. Nessun cultore della fusion ne rimarrà deluso, in particolare i prog-heads, ossia coloro che amano i brani espansi ed i lunghi assoli. Non mancano però alcuni momenti che si avvicinano al jazz puro come lo standard «Come Rain Or Come Shine», cantato dalla signora Corea. Il concept complessivo, però, propende decisamente per una dimensione progressiva e, in qualche modo, sembra il proclama di addio all’epopea delle formazioni fusion all-stars. Forse prevedendo il futuro, da buon visionario qual’era, Chick Corea decise di dare liberarsi di ciò che aveva accumulato negli anni, come uno che stava per cambiare casa, città e, probabilmente, anche identità artistica: e così fu! È pur vero che i Latini dicevano «melius abundare quam deficere», ma per suggellare la storia degli RTF sarebbe bastato l’album singolo, ossia «Return To Forever Live» del 1978.