// di Francesco Cataldo Verrina //

Agli inizi degli anni Cinquanta, Charles Mingus s’imbatte in un pianista canadese, un certo Paul Bley. Il genio di Nogales si avvede subito che quel giovane musicista possiede un talento fuori dal comune, quindi lo porta in uno studio di registrazione e gli produce l’album d’esordio, «Introducing Paul Bley», pubblicandolo con la sua etichetta, la Debut Records. Alla sessione partecipano lo stesso Mingus al contrabbasso ed Art Blakey alla batteria. Paul Bley ha uno stile ancora da definire, un po’ aspro e martellante, a tratti quasi monkiano ma con mani molto più fluide e veloci; per contro in nuce c’è già tutto ciò che avrebbe espresso nel futuro. Nel complesso, però, il giovane pianista esprime un jazz vigoroso e fortemente individuale: difficile scorgere influenze e punti di riferimento ben precisi. Maturando, Paul Bley diventerà un delle figure più influenti del pianismo evolutivo e sperimentale nell’ambito del jazz moderno, punto di riferimento per una pletora di succedanei.

Nel disco in oggetto, il canadese si mostra assolutamente sicuro nella tecnica espositiva, forte della presenza di due musicisti esperti, due colonne portanti come Mingus e Blakey, i quali non permettono mai al flusso armonico di deragliare. In particolare Mingus, in posizione di retroguardia e di comprimario, avanza spesso in prima linea facendo da suggeritore, mentre Art diventa un propulsore segnando le ripartenze dopo i cambi di passo. Da sottolineare il fatto che Bley evidenzia subito anche una fluida e prospera vena compositiva: due delle sei tracce «Opus 1!» e «Spontaneous Combustion» recano in calce la sua firma. I due temi, composti dal pianista, sono posizionati in apertura delle due facciate dell’album in vinile: la prima fa leva su una melodia facilmente memorizzabile dal vago sapore retrò e con qualche influenza classicheggiante, nonostante l’anima swing prevalga nel contesto, ma soprattutto favorisce un ottimo triello, ossia un perfetto gioco di squadra ed un lubrificato interscambio tra Bley e i due più maturi sodali; la seconda, pur mantenendo lo stesso indirizzo editoriale, è più complessa ed articolata, perfino più imprevedibile, almeno nei cambi di mood.

«Teapot (Walkin’)» diventa una luminosa vetrina espositiva per il pianista, il quale passeggia in scioltezza, quasi in overclocking su uno zampillante hard-swingin’, mentre Mingus e Blakey, dalle retrovie, lo incalzano come se stessero seguendo un fuggitivo o come certi domatori fanno con i cavalli di razza quando vogliono metterli alla prova. Paul Bley, da purosangue qual era, non delude le aspettative del suo scopritore. Del resto, l’album fu per il giovane pianista un vero banco di prova ed una ribalta importante che gli consentì di entrare in quel giro che, all’interno del jazz moderno di allora, costituiva l’ala più avanguardista e sperimentale: sia Mingus che Blakey era due innovatori, pur fedeli alla tradizione, quanto meno due «rinnovatori», due dilatatori della sintassi jazzistica, pronti a mettere sempre il discussione quelle formule improvvisative talvolta stantie e ripiegate su sé stesse; entrambi cercarono la linfa vitale del loro jazz attraverso la scoperta di nuovi talenti: Mingus lo fece con il suo Jazz Workshop e Blakey creando una vera fucina dell’alternanza con i Jazz Messengers. L’album «Introducing Paul Bley» non sfugge a quelle che erano le dinamiche mingusiane, deve tutto ciò che fosse prevedibile, scontato ed agevole veniva lasciato tranquillamente a casa o ai dirimpettai. Ad esempio, la scelta di uno standard come «Like Someone in Love» di Johnny Burke e Jimmy Van Heusen, non è del tutto casuale, poiché esplicita subito l’idea di come una ballata possa essere interpretata con una differente forma mentis: depurata dagli eccessi di sentimentalismo ed ammannita dalla luminosità di un piano che sembra sorridere al mondo.

«Split Kick», a firma Horace Silver, diventa un confronto in campo aperto: Silver era già un caposcuola ed un punto di riferimento nei circuiti jazzistici di quegli anni. Il giovane canadese, spronato da Mingus, non cade nel tranello, evitando di fare il compitino e di riproporre un ricalco di Horace in maniera calligrafa, ma aumenta il passo ed infittisce di note il costrutto specie in fase improvvisativa, sostenuto a pieni voti dall’autorevole retroguardia ritmica. «I Can’t Get Started» di Ira Gershwin e Vernon Duke è un’altra superata prova del nove per Bley che dimostrò di saper già dominare talune arie immortali e riportare la melodia del tema a fior di pelle rendendola «cantabile». Registrato nel novembre del 1953 e pubblicato l’anno successivo, «Introducing Paul Bley» con Charles Mingus e Art Blakey non è un album epocale, è solo un esordio di lusso, superiore a molti dischi in piani trio, spesso acclamati dalla critica in epoche successive. Vi consiglio di cogliere l’opportunità di quest’ottima ristampa in vinile della Sowing Records.

Paul Bley