Nonostante sia ricavato da alcune live session, «Togetherness» è un album privo di sbavature e suonato in maniera mercuriale, dove cornetta e tenore si fanno promesse per l’eternità senza mai perdersi di vista, studiandosi reciprocamente in profondità al fine di ritrovare nel flusso individuale una tematica comune e condivisibile, attraverso cui rinnovare il sodalizio e spiccare il volo improvvisativo.

// Di francesco Cataldo Verrina //

Nel «Taccuino del Marziano» Ennio Flaiano scriveva: «Il mio gatto fa quello che vorrei fare io, ma con meno letteratura». Parlando di questo disco ho cercato (forse ho solo sperato) di essere più gatto e meno narratore o saggista, evitando i sofismi, i giochi di parole e l’iperbole letteraria. Impresa non facile, poiché il contenuto del microsolco è alimentato da una cruda poesia, benché priva di metrica e libera da accademismi di sorta. Soprattutto perché intorno all’album in oggetto, che vede in prima linea Gato Barbieri e Don Cherry in un riuscito morganatico artistico, ci sarebbe da imbastire un’avvincente storia dai contrafforti cinematografici a cui dare il seguente titolo: «Il disco che visse due volte».

Va detto subito che l’album ha dei tratti somatici e caratteriali differenti rispetto ad un qualunque concept free form realizzato in America. Lo scenario è Parigi, dove due set dal vivo vennero fissati su nastro durante la primavera e l’estate del 1965, lontani dal tumultuoso scenario della New Thing che negli USA alimentava molta della produzione jazz post-modale ed a volo libero; diversamente nel Vecchio Continente, almeno sulla carta, si respirava un clima più disteso. In quello scorcio di anni Sessanta sembrava che l’insofferenza verso il tradizionale impianto armonico potesse contemplare un mood di natura politica e sociale, catalizzando il malcontento che animava gli Afro-Americani in rivolta contro il sistema delle disparità e delle segregazioni imposte dai bianchi sulla scorta di leggi vetuste e superate dalla storia. Come diceva Anthony Braxton: «Se sei nero ti considerano tale in ogni parte del mondo, con tutte le complicazioni del caso». Gato Barbieri pur non essendo nero, era un cittadino del Sud del mondo e la capitale francese, già all’epoca, una delle città più tolleranti e pronta ad accogliere qualunque tipo di diversità umana ed artistica. Va da sé che Parigi non era una qualsiasi città statunitense, i cui quartieri periferici, e non solo, in quel periodo pullulavano di «rabbia nera» e di insofferenza verso il potere. Sebbene l’album, per quanto impregnato di blackness, si mostri intollerante agli schemi e alle regole accordali, contiene un mood piuttosto gioioso e giocoso, che lo differenzia da taluni prodotti omologhi Made in USA. Tutto ciò, ovviamente, non è una deminutio capitis, poiché il disco rappresenta uno di quei tanti capolavori ignorati dalla storiografia e sotterrati sotto un cumulo di altre opere degli stessi artisti coinvolti, ritenute più importanti, poiché registrate negli States e pubblicate da rinomate etichette americane.

Ispirato all’avverbio together, ossia insiemein compagnia, in accordo, simultaneamente nello stesso luogo, «Togetherness» fu il termine coniato e scelto da Don Cherry a rappresentare quei set raccolti in due nastri magnetici trasformati in un disco, il quale venne pubblicato per la prima volta nel 1966 dalla Durium, un’etichetta europea generalista che non aveva le stimmate santificanti della Blue Note o della Impulse! Records. Don Cherry alla cornetta e Gato Barbieri al sax tenore sono affiancati dal vibrafonista Karl Berger (tedesco), dal bassista Jean-François Jenny-Clark ( francese) e dal batterista Aldo Romano (italiano). Questo line-up fu il primo gruppo in pianta stabile del cornettista di Oklahoma City. karl Berger lo ricorda così: «Per la prima volta nella mia carriera mi trovai a contatto con un tipo di musica assolutamente priva di complicazioni; non avevamo bisogno di parlare di stile o di tecnica, poiché parlavamo lingue diverse, tanto che risultava impossibile comunicare verbalmente, mentre il dialogo collettivo avveniva attraverso la voce degli strumenti». Nelle intenzioni di Don Cherry «Togetherness» doveva rappresentare l’essenza di quel comune sentire e di quell’agire insieme, teso a realizzare la cosiddetta «Spiritual Unity» legata idealmente al più famoso disco di Albert Ayler, soprattutto finalizzato a rappresentare l’esprimersi dei membri di un gruppo, attraverso quella innata socialità e forza comunicazionale degli uomini del jazz, che legava tutti i musicisti di ogni epoca: i contemporanei, coloro che li avevano affascinati, i maestri che avevano avuto per compagni o quelli che li avevano preceduti, di cui Sonny Simmons diceva: «Quando suoniamo, è con loro che comunichiamo». Al netto delle implicazioni più spirituali, scorrendo attentamente le varie tracce si percepisce che il vero dirottatore del quintetto sia Gato Barbieri che si rivelò come una delle voci più innovative del periodo all’interno del movimento d’avanguardia, per quanto fino al sodalizio con Don Cherry ne sembrava assolutamente avulso; dal canto suo il cornettista all’interno di questo disco risulta più conservativo ed assurge al ruolo di uomo d’ordine, quasi per timore che il line-up potesse deragliare oltrepassando certi limiti o tendere a taluni eccessi libertari ed anarcoidi non proprio graditi al pubblico parigino. In ogni caso con Barbieri, Cherry aveva raggiunto di nuovo quell’intensa e quell’espressione bi-vocale e bi-focale che costituiva uno degli elementi cardine del quartetto di Ornette Coleman. Lo stesso Cherry, nel 1964, aveva dichiarato ad Amiri Baraka (LeRoi Jones): «Due musicisti sono sufficienti a formare un gruppo. Se essi hanno forza e maturità, se sanno fondersi in una sola persona. A questo punto tutti gli altri li percepiranno come tale e di conseguenza si adatteranno a quel suono e si accorderanno con le loro voci». Il quintetto si era formato nel 1964 e, nonostante ciascuno dei musicisti avrebbe continuato a registrare con Cherry in altri contesti, «Togetherness» rimane l’unica registrazione di questa formazione. In quelle performance la sezione ritmica fu viva, decisiva e pulsante, operando in maniera calibrata ed empatica dietro la prima linea costituita da Don e Gato, autentici centri propulsori del progetto e sinergici come una sola anima a due voci.

Va detto che «Togetherness» non è una suite sul modello eurodotto, né una blowing session: la divisione in movimenti, ossia «Togetherness One: First Movement/Second Movement/Third Movement» e «Togetherness Two: Fourth Movement/Fifth Movement» nasce da una descrizione di comodo e non ha nulla a che spartire con l’impalcatura di un album concept. Al contrario i vari movimenti corrispondono solo alle pause dei front-men fra un intervento e l’altro. Ciononostante le varie tracce appaiono conseguenziali e legate da un sottile fil rouge e da un’unità d’intenti, tanto che nella successione riescono a dare l’idea di un continuum logico. In ogni movimento sono assemblate composizioni di Ornette Coleman, Albert Ayler, Dollar Brand e dello stesso Cherry. Nel lato più sudamericano del disco, ad esempio nel quinto movimento, è presente «Insensatez», un omaggio alla bossa nova di Carlos Jobim e Vinicius De Moraes, mentre altrove sono presenti musiche di Glauber Rocha, regista brasiliano, autore di «Deus e O Diabo na Terra do Sol», basato su un humus assai fertile per le incursioni di Leandro «Gato» Barbieri. Nonostante sia ricavato da alcune live session, «Togetherness» è un album privo di sbavature e suonato in maniera mercuriale, dove cornetta e tenore si fanno promesse per l’eternità senza mai perdersi di vista studiandosi reciprocamente in profondità, al fine di ritrovare nel flusso individuale una tematica comune e condivisibile con cui rinnovare il sodalizio e spiccare il volo improvvisativo. Dalla retroguardia non viene mai a mancare il giusto apporto ritmico ed il sostegno per i due co-leader. Il gioco di squadra è sistematicamente telepatico ed affiatato, sebbene improntato alla massima libertà espressiva. Si ha come l’impressione che i cinque sodali abbiano mandato giù tutto a memoria, per avere un pieno di idee da esternare alla bisogna mediante un affinato by-play in tempo reale e propedeutico all’improvvisazione. Nel 1976 l’album venne ristampato dalla Inner City Records, invertendo la titolarità, ossia Gato Barbieri e Don Cherry. Ciononostante, gli annali di storia del jazz moderno non gli hanno mai reso veramente giustizia.

Gato Barbieri, Karl Berger & Don Cherry
0 Condivisioni