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«THE DAY AFTER THE SILENCE» DI ENRICO PIERANUNZI, 1976 (RISTAMPA ALFA MUSIC)


 
 
   

//di Bounty MIller //

Enrico Pieranunzi è una delle massime espressioni del jazz italiano del dopoguerra. Una lunga carriera fatta di riconoscimenti e collaborazioni internazionali sono la testimonianza di un talento non facilmente circoscrivibile. Sin dalle origini, lo stile del pianista romano è pervaso da un senso di libertà insito nell'originalità del suo modulo espressivo fatto di riferimenti alla tradizione, al classicismo, ma geneticamente visionario, innovativo ed a trazione anteriore. Le sue scelte si sono mostrate sempre non convenzionali e poco manieristiche.

Quando Enrico Pieranunzi diede alle stampe questo album, il primo in piano-solo ed il secondo in assoluto della sua carriera, l'Italia stava attraversando una stagione politica compulsiva, i cui effetti si riverberavano sulla «nuova scena jazzistica», la quale cominciava ad accorciare le distanze «qualitative» ed a ridurre lo iato che la teneva lontana dal resto d'Europa; il jazz italico si accingeva a dare vita ad un autentico rinascimento culturale, con un sostanzioso aumento del numero di musicisti attivi, portatori spesso di molte varietà di stile e tendenze. Si usciva, finalmente, da un periodo di isolamento legato esclusivamente ad importanti solisti come Basso, Valdambrini, Volontè, Cerri, influenzati dagli stilemi afro-americani, o ad un cerchia ristretta di artisti d'avanguardia, quali Gaslini, Intra o il Modern Art Trio, che davano respiro internazionale a un panorama nel quale c'era posto solo per l'eccellenza.

Si passò così a una fase ricca di talenti e ad una varietà genetica di proposte, tra cui emerse prepotentemente la figura di Enrico Pieranunzi, foriero di una marcata originalità compositiva ed espressiva, nonché di un'abilità tecnica percepibile già ad un primo e fugace ascolto della sua musica: «The Day After The Silence» costituisce una prova incontrovertibile di un cambiamento. Negli anni settanta uscì allo scoperto un cospicuo numero di giovani jazzisti, i quali si affermeranno soprattutto nel decennio successivo animando la «nuova scena» e da cui presero forma le prime scuole popolari di musica, come quella del Testaccio, di cui Pieranunzi fu uno dei fondatori. Nel clima generale di quella fase storica la sua figura rappresentava, per vari motivi, un'anomalia. Erano anni dominati dal binomio musica-politica, subdolamente basato su sibilline e faziose dinamiche a cui il pianista romano, allora ventisettenne, non aderì mai: «ero un uomo di sinistra», raccontò in seguito Pieranunzi. «Ma non mi sentivo completamente dentro la cultura marxista. Ritenevo la musica un'espressione prima di tutto umana più che politica, portatrice di una sua propria politica, quella della bellezza».

Pieranunzi era insegnante di pianoforte al Conservatorio, un raro portatore di una cultura strumentale accademica ed eurocolta, che utilizzava consapevolmente in ambito jazzistico trasformandola e ponendola al servizio delle sue improvvisazioni; oltremodo il giovane Pieranunzi si esprimeva attraverso un linguaggio raffinato, per nulla incline agli slogan e in possesso di una vasta conoscenza, non solo musicale; infine il pianista restava ancorato al modello tonale-modale del jazz maturato a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta, eludendo inizialmente il richiamo di un concept sonoro di tipo «antagonista» e fugando la tentazione di cedere al free-jazz, causa che avrebbe abbracciato diversi anni dopo, ma con una regola d'ingaggio del tutto personale e quasi eccessivamente dissonante. Lui stesso comprendeva di essere «un jazzista italiano atipico, che a qualcuno creava problemi di collocazione».

Al netto di ogni valutazione socio-politica, quando «The Day After The Silence» arrivò sul mercato ricevette immediatamente il plauso da parte dei più autorevoli critici del tempo: «il musicista è rigoroso e sorvegliatissimo - scriveva Walter Mauro - e si colloca tra i massimi esponenti del jazz italiano con un disco oltretutto esemplare». «Tecnica magistrale, gusto impeccabile, fantasia straordinaria» sono le affermazioni che si trovavano nella recensione di Salvatore Biamonte; mentre sulla rivista canadese Coda si leggeva di lui come del «più interessante pianista attivo in Italia, dalle frasi articolate con grande cura, dalla mente agile come le dita». In Francia, Jazz Hot ne rilevava «la grande sensibilità per le sfumature e l'assenza di tendenze jarrettiane», mentre sull'antagonista Jazz Magazine si sottolineava «l'enorme bagaglio tecnico, lo spirito del blues, la fenomenale mano sinistra e le doti di compositore e improvvisatore».

Un consenso internazionale, che raramente in quegli anni i musicisti italiani potevano vantare: perfino profeta in patria, consacrato dalle liner notes di Arrigo Polillo, il critico allora più in voga e temuto, il quale evidenziava la molteplicità delle influenze di Pieranunzi, attraverso cui giungeva alla creazione di uno stile originale. Si potrebbe aggiungere un modello ancora contemporaneo, poiché uno degli aspetti del jazz attuale è proprio la ricchezza di riferimenti provenienti dai quattro punti cardinali della musica, lo sguardo senza pregiudizi a tutto il passato al fine di costruire il suono del presente, ossia una maniera proteiforme di concepire il jazz di cui Pieranunzi fu anticipatore ed antesignano, almeno in Italia. In quel periodo nel suo linguaggio era facile individuare tracce di McCoy Tyner e Chick Corea, particolarmente in relazione alla concezione armonica di tipo tonale-modale; per compenso le sue composizioni mostravano strutture e percorsi fortemente caratterizzati e non ascrivibili ad alcuna scuola di pensiero, attraverso un ventaglio di situazioni poco convenzionali che riflettevano un mood sonoro inventivo ed articolato.

Ad esempio, «Prolusion», pur imbevuto di modalismo tyneriano, è sospinto da furenti bassi che rimandano all'ultimo Tristano, mentre il fraseggio elaborato in progressione, mostra una vorticosa proiezione costantemente a trazione anteriore, frutto di una tecnica già assai evoluta. «Trichromatic Line» sposa la causa e gli assunti del nuovo pianismo anni Settanta: a volte pressante e senza aria ferma, altre giocato su microscopiche digressioni, quasi minimaliste. «A Gay Day» appare subito grondante di un flusso melodico euro-centrico tratteggiato da richiami alla tradizione popolare del Vecchio Continente. La title-track, «The Day After The Silence», si sostanzia attraverso l'espansione delle frasi che, concedendo ampio respiro al movimento ritmico-armonico, dove il beat è costante ma la tensione emotiva, prima del rilascio risulta alquanto dilatata; alcuni tratti salienti di questa specifica architettura sonora sono in parte riscontrabili anche in «Aurora», un brano pressoché surreale, imperniato sulle tipiche armonie quartali alla McCoy Tyner, mentre «Blue Song», una delle prime ballate iscritte al libro paga di Pieranunzi, viene infarcita di sonorità vaporizzate ed eseguita con uno spirito quasi cameristico.

«Our Blues» nasce su un terreno assai fertile e congeniale al pianista: gli basta rispolverare la cassetta degli attrezzi per mantenere sempre scorrevole la sequenza narrativa: dichiarazione-progressione-conclusione; per contro l'audace «Blues Up» si materializza come una sorta di jazz-boogie inerpicandosi con passo sicuro su una serie di tempi doppi e tripli. Entrambi i componimenti denotano l'interesse per il blues, come spiega lo stesso Pieranunzi: «Il blues faceva parte di me praticamente da sempre, da quando avevo messo per la prima volta le mani sul pianoforte. Era la prima forma musicale che mio padre mi aveva insegnato e blues erano i pezzi di Parker, Silver o dei Jazz Messengers sui quali, in modo totale e viscerale, avevo costruito il mio linguaggio».

La ristampa di «The Day After The Silence» regala al mondo due jazz-waltz quali «The Mood Is Good», in cui si potrebbe avvertire qualche citazione evansiana appena accennata, e l'incisivo «The Flight Of Belphegor», ultimi due intarsi di un gioiello musicale di notevole interesse storico, che evidenzia quella componente del modus operandi di Pieranunzi divenuta negli anni un paradigma ispirativo, quale retaggio del suo polimorfico immaginario sonoro.


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