LA COMUNICAZIONE DI PLASTICA -
PUBBLICITARI SULL'ORLO DI UNA CRISI DI NERVI
Come la plastica, la pubblicità è un prodotto di
sintesi, ma anche di scarto e di rifiuto differenziato.
Senza sprecare tempo nel precisare le similitudini
diciamo subito che in pubblicità si ottengono i
risultati ed effetti migliori se all’elaborato creativo
concorrono più elementi. Quando più persone s’incontrano
per gettare le basi di un’azione pubblicitaria,
tecnicamente, si parla di brain storming, come dire
“tempesta di cervelli”, ma sarebbe più opportuno
indagare sulla reazione chimica che scaturisce dai
neuroni di questi individui coinvolti nel progetto,
poiché l’atto conclusivo sarà molto simile ad una
fusione a caldo, ossia una sorta di joint-venture
creativa, in cui ognuno avrà sacrificato qualcuno dei
propri originari elettroni, acquisendone altri di
differente provenienza, dando vita ad un prodotto di
sintesi altamente stabile, talvolta indistruttibile come
la plastica.
Per
capire pensiamo alla più elementare delle reazioni
chimiche: “H”, ossia l’idrogeno e “O”, l’ossigeno,
diventano H2O, cioè l’acqua, per noi umani la vita, per
il filosofo Talete, il principio di ogni cosa. Il dato
più straordinario è che l’idrogeno e l’ossigeno, usando
un’espressione blanda, non si reggono in piedi, sono
invisibili ed impalpabili, sono dei gas, eppure unendosi
diventano ciò che di più meraviglioso esiste al mondo,
l’acqua, fonte di vita: fiumi, laghi, mare. L’acqua è il
nutrimento delle nostre cellule, la base della nostra
igiene e della nostra salute: bere molta acqua, come
fare molta pipì allunga la vita, così come fare invece
tanta pubblicità allunga il fatturato (e la stessa vita)
di un’agenzia. Ritorniamo nuovamente alla metafora, per
dire che i solisti del brand, i creativi dell’assolo,
gli artisti in formato monodose, gli evanescenti
gassosi, asessuati per inclinazione o per vocazione,
ossia quelli che non si accoppiano con nessuno nemmeno
sotto briefing, sono destinati ad un inesorabile
estinzione. Oggi l’imperativo categorico sembra essere:
aprirsi alle nuove istanze della tecnologia, ossia
suddividere, scambiare, condividere, ma soprattutto
cambiare modus operandi. Fondamentale risulta il
file-sharing della creatività, ovvero il
confronto-scambio con i propri simili in un situazione
assolutamente orizzontale, ossia di primi inter pares.
Tutti al rogo i pubblicitari affetti da protagonismo
maniacale, eccentrici, auto-incensanti, quelli che
dicono sempre io, io, io ed ogni tanto si sbagliano
dicendo Dio, pronti a contornarsi di mediocri
collaboratori, solo per avere la certezza di svettare su
gli altri e per tema che qualcuno possa mostrare
disappunto o intavolare una parvenza, sia pur minima, di
civile contraddittorio in qualunque occasione.
Soprattutto, i pubblicitari più egocentrici e narcisisti
dovrebbero sapere che la pubblicità come la plastica, è
un prodotto di scarto. La critica, in particolare quella
più paludata e affetta da cronico intellettualismo, non
ha mai riconosciuto alla reclame lo status di forma
d’arte. In verità, volendo essere prosaici, diciamo che
la pubblicità migliore non è mai stata quella più bella
o più artistica, bensì quella più efficace, cioè in
grado di far comprare qualcosa. Lo scarto, o meglio il
gap consiste proprio in questo sentirsi “arte”, ma non
avere la tempra per poterlo dimostrare con certezza,
soprattutto di non riuscire a farlo accettare al mondo
che conta: critici d’arte, giornalisti, letterati,
accademici, etc. Il fatto di usare o scimmiottare il
linguaggio dell’arte, mutuato da altre forme espressive,
ma essere costantemente asservita alle dinamiche del
mercato, fa sì che la pubblicità resti una forma d’arte
primitiva, ossia al primo stadio espressivo, ma
eternamente incompresa, o comunque indefinita. Per
intenderci, come si può considerare artistico, un
qualsiasi elaborato dell’umano ingegno, per quanto
creativo, che finisce sempre per chiederti di mettere
mani al portafogli o alla carta di credito e comprare un
prodotto o un servizio? Questo essere “scartati”,
attanaglia in particolare una categoria di pubblicitari,
i grafici o, comunque, certi grafici. Per fortuna la
maggior parte di essi opera all’insegna della più
assoluta concretezza e degli assunti basilari del
marketing. Parafrasando un vecchio motto, potremmo
affermare che chi nella vita non sa fare nulla, fa il
pittore, chi invece non sa dipingere fa il grafico. E,
aggiungiamo, con tutte le frustrazioni del caso. Se da
una parte è innegabile che anche nella pubblicità vi sia
una fruizione estetica, resta il fatto che ogni
linguaggio pubblicitario ha un preciso obiettivo, che è
sempre stato quello di rompere un equilibrio statico ed
innescare un comportamento teso all’acquisto. Per
ottenere tale effetto, si ricorre a delle precise leggi
psicologiche, quasi scientifiche, regole non scritte, ma
che i pubblicitari conoscono e che debbono sapere
utilizzare nel modo più efficace per diffondere un
prodotto o un servizio. Non si vuole affermare a priori
che la creatività di un pubblicitario sia la parente
povera di quella di un artista. Saggezza vuole che
taluni istinti o eccessi artistici vadano canalizzati in
altre direzioni più consone, evitando l’autocelebrazione
del super-Io artistico a detrimento del prodotto; magari
dedicandosi alla scrittura di un romanzo, collaborando
con qualche rivista d’arte, di musica o di comunicazione
o, più semplicemente, nel caso di un grafico, allestendo
una propria personale di pittura, ammesso che si sia in
grado di dipingere qualcosa d’interessante. Come la
maggior parte della plastica finisce nei rifiuti e poi
nel riciclo grazie alla raccolta differenziata, anche la
pubblicità è destinata, per sua stessa natura, alla
pattumiera. In un qualsiasi tipo di campagna
pubblicitaria, i materiali e supporti cartacei,
audio-visivi o digitali che la compongono hanno un
utilizzo limitato nello spazio e nel tempo, essendo
legati al lancio o alla promozione di un dato prodotto o
di una particolare attività. Se vengono riproposti,
questo avviene nell’arco di un periodo di tempo sempre
alquanto ridotto. Il riciclo della pubblicità avviene
quando, il creativo si fossilizza su particolari
tecniche o determinati moduli espressivi, reiterandoli
all’infinito e cercando di adattarli a ogni situazione.
Tutto ciò con l’insano proposito di creare uno stile: la
pubblicità è solo un involucro, un rivestimento esterno,
un abbellimento estetico non può avere un suo stile (a
prescindere), deve adattarsi e modellarsi in base alle
esigenze del brand, del prodotto, al massimo deve andare
incontro alle esigenze del consumatore. Come si può, ad
esempio avere uno stile unico e adattarlo ai coltelli da
cucina, piuttosto che ai pannolini, a un detersivo per
lavare i pavimenti, piuttosto che a una schiuma da bagno
profumata. Forse per questo che, soprattutto in taluni
spot televisivi, si ha come l’impressione che le
persone, intente a fare il bagno a un bambino, abbiano
il medesimo atteggiamento di chi sta lavando il
pavimento o di chi si sta facendo la doccia con il
detersivo per i piatti. Pensate davvero che sia
possibile adattare una grafica minimale, ottima per uno
studio di design o di moda, a quella destinata al
volantino “spaccaprezzi” realizzato per una catena di
negozi di hi-tech ed elettrodomestici? Con tutto ciò non
s’intende dire che il momento creativo debba essere un
atto del tutto impersonale. E’ ovvio che il back-ground
del copy-writer o dell'art-director lasci una sua
impronta, così come la sua formazione, le esperienze, le
letture, il grado di cultura, il percorso formativo e
quant’altro, ma da qui ad appropriarsi di un prodotto e
volerlo piegare alle proprie frustrazioni
pseudo-artistiche o ad un presunto stile, piuttosto che
asservire le proprie conoscenze alle esigenze del
mercato e dell’azienda committente, significa deragliare
dal binario della sanità mentale. Oggi, sono in molte le
agenzie o i pubblicitari che, anziché parlare di
risultati in termini di quote di mercato acquisite dai
brand o dalle attività da loro patrocinate, si riempiono
la bocca con la parola etica, quale presunto (o
presuntuoso) elemento di mera distinzione dalla
concorrenza, scambiando per etica, una normale routine
di correttezza e di rispetto delle regole del mercato e
della comunicazione in generale. Solitamente, chi fa
pubblicità non fa, né deve fare etica, al massimo
qualche etichetta. Giochi di parole a parte, è forse
giunto il momento di scrollarsi di dosso questo pesante
mantello da templari, anzi fardello di custodi assoluti
del tempio dell’umana creatività e scendere nel regno
dei comuni mortali e con qualche click di tastiera
gettarsi nel gorgo del tutto e del nulla, ossia nel mare
magnum della Rete, dove nuove ed esaltanti sfide ci
attendono.
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